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 2020  settembre 11 Venerdì calendario

Il genocidio di gorilla, pesci e pappagalli

È l’Antropocene, bellezza: febbre alta del Pianeta, polso flebile, eppure, anche di fronte a una pandemia globale, a eventi climatici estremi e a incendi devastanti, c’è chi nega o continua a fare come nulla fosse. «Business as usual».
Il genocidio di specie viventi e il «crac» ecologico, spiega il Wwf con il Living Planet Report 2020, richiedono un New Deal globale, un’azione urgentissima per invertire la tendenza entro il 2030: bisogna arrestare la distruzione degli ecosistemi naturali e rivedere l’intero sistema di produzione e consumo del cibo.
La rivoluzione dovrebbe cominciare dall’industria e dal modo di produrre, dovrebbe arrivare nei nostri piatti e nei carrelli del supermercato (o nella sporta degli alimentari sotto casa, in campagna e montagna, non avessimo sacche di terra desolata come su Appennino e Alpi), invece meglio mettere gli orsi in gabbia dopo aver sottratto loro l’habitat, meglio spianare, intubare, incanalare, deforestare, condonare e setacciare gli oceani. Difficile avviare un profondo New Deal ambientale senza metter mano alla pressione demografica, senza difendere rigorosamente il paesaggio, straordinario contenitore di natura e cultura: «Ogni paesaggio appartiene al popolo che lo ha creato», diceva Schiller, ma di fronte alla battaglia che si combatte palmo a palmo sul territorio (termine ormai stra-abusato, vuoto di significato, che come la parola «sviluppo» nasconde molte nefandezze), il popolo ha ben poche armi di difesa. Nel documento Piegare la curva della biodiversità terrestre richiede una strategia integrata, scritto dal Wwf con oltre quaranta Ong e università e pubblicato su Nature, si indica tra i cambiamenti necessari il rendere la produzione e il commercio alimentare più efficienti ed ecologicamente sostenibili, ridurre gli sprechi e favorire diete più sane.
In mezzo secolo, dal 1970 ad oggi, abbiamo incrementato la nostra attività di distruttori impenitenti, lo dimostra il crollo delle popolazioni di mammiferi, pesci, rettili, uccelli e anfibi, diminuite del 68%. Un declino che costerà al mondo almeno 479 miliardi di dollari all’anno. Colpa dell’attuale modello di sviluppo mondiale: il Living Planet Index (Lpi) fornito dalla Zoological Society of London dice che i fattori in grado di aumentare la vulnerabilità del pianeta alle pandemie, come il cambiamento dell’uso del suolo e l’utilizzo e il commercio di fauna selvatica, sono gli stessi che hanno determinato il calo catastrofico delle popolazioni di specie di vertebrati negli ultimi 50 anni.


Le eccezioni al disastro
Complimenti, eravamo sul ciglio del baratro e siamo riusciti a fare molti passi avanti. Gli aspetti sanitario, economico e ambientale sono strettamente connessi: in India (ma non erano vegetariani?) nascono «pollifici» abnormi, in Cina per riprendere qualche punto del Pil si torna al carbone, in Occidente crescono gli obesi e si oscilla tra cibo spazzatura e gastrofighettismo.
«La natura si deteriora - dice Marco Lambertini, direttore generale del Wwf Internazionale -, il declino della fauna selvatica influisce direttamente sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza di miliardi di persone». «Nel mezzo di una pandemia che colpisce il pianeta - aggiunge la presidente del Wwf Italia Donatella Bianchi - è più che mai importante intraprendere in tempi brevissimi un’azione globale coordinata per arrestare e invertire entro la fine del decennio la perdita di biodiversità nel mondo, proteggendo così la nostra salute. Il Living Planet Report raccoglie l’ennesimo SOS lanciato dalla Natura che, questa volta, i leader mondiali che si riuniranno (virtualmente) tra pochi giorni per la 75ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non possono ignorare».
Le specie in via di estinzione analizzate nel Lpi includono il gorilla di pianura orientale, il cui numero nel Parco Nazionale Kahuzi-Biega (Repubblica Democratica del Congo), ha visto un calo dell’87% tra il 1994 e il 2015 a causa della caccia illegale, e il pappagallo cenerino in Ghana sud-occidentale, diminuito fino al 99% tra il 1992 e il 2014 per il commercio di uccelli selvatici e la perdita di habitat.
Non è il caso di cadere nello sconforto, ma di continuare a combattere. Anche perché ci sono segnali incoraggianti, per quanto minoritari, dice il Wwf lanciando una petizione: è il caso delle popolazioni di alcune specie come la tartaruga caretta nel Simangaliso Wetland Park, Sud Africa, lo squalo pinna nera del reef (Carcharhinus melanopterus) nell’Ashmore Reef in Australia occidentale o il castoro europeo (Castor fiber) in Polonia, o di quelle di tigri e panda. Tutti casi di specie aumentate nel loro numero globale (a parte popolazioni locali a rischio) insieme al risultato di protezione marina globale, salita al 6% inclusa la creazione dell’Area marina protetta del mare di Ross in Antartide.
L’allarme rosso è acceso da tempo insomma e si continua a ballare allegramente sulla tolda del Titanic. Anche perché, per la verità, non possiamo abbandonare l’astronave o buttarci in mare.