Il 20 settembre del 1870 è una delle date fondative nazionali, ma in questi anni – forse in questi decenni – è stata largamente dimenticata. L’ingresso dei bersaglieri a Porta Pia ha siglato la fine del potere temporale del Papa, il compimento del processo nazionale unitario e la nascita dell’Italia laica che avrebbe eletto Roma capitale. Ma intorno alla celebre Breccia è sceso un velo di silenzio, interrotto a tratti da bande, grancasse, soldatini di piombo, rievocazioni con cappelli piumati che attengono più al folclore che alla memoria pubblica. E ora in occasione del centocinquantesimo anniversario, anche a causa del Covid, le celebrazioni appaiono in tono minore. «Ci sono ragioni profonde che spiegano questa lunga rimozione», dice Hubert Heyriès, lo storico francese che ha scritto per il Mulino una meticolosa ricostruzione di quell’evento, grazie a una cospicua mole di carte inedite ( La breccia di Porta Pia ). «E tra i motivi indicherei anche la mancanza d’una storiografia militare sull’argomento: gli studiosi l’hanno considerato, più che una guerra, un evento politico e religioso. E ne hanno sminuito il fatto d’arme, riducendolo a una sorta di “passeggiata militare” senza gloria e senza martirio. Un “non evento” rispetto agli altri combattimenti risorgimentali».
Lei pensa che sia stato dimenticato per questo?
«Mi risulta altrimenti inspiegabile che il padre della storiografia militare italiana, Piero Pieri, non ne faccia cenno nella sua opera monumentale sulle guerre del Risorgimento. Come se la presa di Roma non fosse degna di farne parte».
A questa sottovalutazione contribuirono motivazioni di tipo ideologico.
«Gli storici cattolici hanno avuto difficoltà a inoltrarsi in un terreno insidioso per il Papa e per la religione, mentre gli intellettuali di sinistra non hanno mai amato una campagna militare condotta dall’esercito regio, braccio armato della borghesia e strumento di repressione sociale: un movimento assai diverso dalle rivolte popolari del Quarantotto o dalle spedizioni garibaldine».
L’Italia laica s’è sempre riconosciuta nell’evento che mette fine al potere temporale della Chiesa. Oggi forse possiamo dire che, grazie al pontificato di Francesco, il conflitto tra Stato e Chiesa è meno avvertito.
«Sì, papa Francesco rappresenta il compimento di un processo di conciliazione cominciato con il Vaticano II. Non è un caso che già nel 1970, primo centenario, la rievocazione di Porta Pia fosse condivisa da Vaticano e Quirinale, in un rinnovato interesse di studi e memorialistica. E tra un mese Roma ospiterà un convegno promosso dallo Stato Maggiore dell’Esercito e dalla Chiesa, segno di una più robusta riconciliazione tra Stato, Vaticano e forze armate».
Il suo lavoro analizza la conquista di Roma sul piano militare, un punto di vista finora trascurato. In che modo cambia il nostro sguardo su quegli accadimenti?
«Molti hanno liquidato l’impresa come una “passeggiata”, ma i comandi militari e il governo regio non l’avevano intesa in questo modo. Le lettere dell’allora primo ministro Giovanni Lanza e del generale Raffaele Cadorna restituiscono tutta la preoccupazione per il fanatismo di cui erano capaci gli zuavi pontifici, peraltro meglio armati dei soldati regi: avevano in dotazione i fucili Remington assai più pericolosi dei fucili Carcano posseduti dall’esercito piemontese».
Lei scrive che fu messo a punto un piano strategico e tattico dettagliato.
«Sì, la campagna militare era cominciata a luglio, con uno sforzo bellico notevole e un piano d’invasione che prevedeva l’accerchiameno del Lazio. Un’impresa ben più ampia della settimana che è passata alla storia, quella tra il 12 e il 20 settembre del 1870. Fu una vera guerra, che meriterebbe di essere ricordata come l’ultima del Risorgimento».
Però furono gli stessi protagonisti a definirla “una passeggiata”.
«Naturalmente, ma questo fu possibile dirlo a cose fatte. Io parlo dei sentimenti che animarono i comandi italiani prima di dar avvio alla campagna. È sbagliato scrivere la storia tenendo conto solo del risultato».
La preoccupazione che animava Vittorio Emanuele II e i vertici militari era quella di non spargere sangue, anche per evitare che il pontefice si presentasse al mondo come vittima dell’aggressione piemontese.
«Fu messo in atto il concetto moderno di “guerra pulita”, guerra senza morti. L’obiettivo fu raggiunto nella presa di Civitavecchia, dove non ci furono vittime. Ma a Roma questo non fu possibile, a causa della caparbietà di Pio IX e del comando pontificio che scelsero di combattere “fino all’ultima cartuccia e fino all’ultimo uomo”. Questa ostinazione vergognosa provocò 48 morti e 150 feriti nell’esercito regio e 74 tra morti e feriti nelle file del Papa».
Pio IX voleva trasformare la disfatta militare in vittoria politica.
«Da questo punto di vista si trattò di un conflitto dove la strategia politica precedeva quella militare. Anche questo è un tratto molto moderno. E forse qui bisogna cercare la differenza più grande rispetto alle altre guerre del Risorgimento, dove i fatti d’arme erano prevalenti».
Chi erano gli uomini della presa di Roma? Lei usa una definizione precisa: rappresentavano “la nazione in marcia”.
«Nella composizione prima del Corpo di osservazione e poi del Corpo di intervento si badò a includere le varie componenti regionali: i nomi delle brigate evocano le varie città italiane, dal Nord al Sud della penisola. E i comandanti erano tutti veterani delle guerre combattute tra il 1848 e il 1866, interpreti di un Risorgimento dinastico, nazionale, garibaldino: lombardi, piemontesi, toscani, genovesi, napoletani».
Si può dire che questa campagna militare abbia anticipato quella mescolanza che 45 anni dopo nelle trincee della Grande Guerra avrebbe favorito la formazione dell’identità nazionale?
«In un certo senso sì. I soldati si trovarono mischiati gli uni agli altri in una guerra che era nazionale, non più piemontese. Ed è indubbio che la presa di Roma anche sul piano militare abbia fatto parte del processo di nation building italiano».
Lei dedica una parte delle ricerche ai tanti volontari che accorsero per difendere il Papa da ogni angolo del mondo.
«Tra il 1861 e il 1870 diverse migliaia di stranieri andarono a ingrossare le file degli zuavi. Per molti si trattava della nona crociata in difesa di Pio IX, quindi erano animati da sacro fanatismo. Ma ho trovato anche la lettera di un contadino savoiardo che si arruolò solo per sei mesi perché in quel periodo aveva poco da fare nei campi. Furono numerosi i lavoratori disoccupati attratti dalla possibilità di guadagnare. Il volontarismo poteva essere animato dalla fede o da una spinta esclusivamente mercenaria».
E tra le carte dello Stato Maggiore consultate per la prima volta quali sono gli elementi che più l’hanno colpita?
«I rapporti riservatissimi degli ufficiali italiani sulle condizioni della truppa: denunciavano problemi nel vettovagliamento e nella preparazione militare ma restavano inascoltati. Il 12 settembre, arrivato in prossimità di Roma, il generale Angioletti comunica al ministro della guerra Ricotti le pessime condizioni della nona divisione, ma la risposta fu laconica: non importa, voi correte, avanzate il più possibile. Questa è la guerra!».
Negli ultimi anni lei lamenta la prevalenza di rievocazioni ludiche, tra soldatini e bande musicali.
«È un problema che affligge la memoria anche di altre battaglie del Risorgimento. Tre anni fa sono stato a Solferino dove i cosiddetti rievocatori indossavano le divise dei soldati di Napoleone III e parlavano un francese incomprensibile. Naturalmente ho rispetto per queste cerimonie che mantengono viva la memoria. L’esito da operetta è forse il frutto di un rapporto mancato degli italiani con i loro padri risorgimentali. Speriamo che l’anniversario di Porta Pia possa rompere il velo di indifferenza, ma non sono molto ottimista».