il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2020
Biografia di Vittorio Sgarbi
All’Universo è toccata la sfiga dei buchi neri. Alla Terra quella del ghiaccio che si scioglie. Solo alla piccola Italia è capitato il tormento supplementare di Vittorio Sgarbi. Ci tocca dal 1989, quando lo scovò Maurizio Costanzo, esperto in attrazioni da palcoscenico. All’epoca Vittorio, dopo le nobildonne veneziane, bazzicava i salotti delle sciure milanesi, quelle col visone, il brillocco e il birignao, scandalizzandole grazie al suo eloquio da incantatore rinascimentale e facendole innamorare, più dei loro parrucchieri, con il ciuffo alla Bobby Solo. Esordì in tv dando della “stronza” a una poetessa afasica. Fu un trionfo di applausi. Perfezionato, augurando la morte a Federico Zeri, principe dello sguardo, lanciando un bicchiere d’acqua in faccia a Roberto D’Agostino, che reagì con un celebrato ceffone, e insultando un migliaio di altre persone – per lo più magistrati, giornalisti, politici, critici d’arte, soubrette, poliziotti, artisti, vigili urbani – per poi collezionare, nella sua vita a credito, la bella cifra di 250 querele, molti milioncini di risarcimenti. E un aggiornamento contabile sempre in corso, nel suo personale crash-show.
“Un guitto con il dono della parola”, dissero gentilmente di lui. E il suo maggior lascito, diciamo pure la sua grande opera stesa a martellate in pubblico, è tutta lì, nella definitiva dissoluzione del linguaggio che ha agito, come fece il Cubismo con l’immagine, scomposta e ricomposta alla rovescia, sul bene pubblico della buona educazione, in cambio dello share. Malanno che ci ha inflitto e si è inflitto, con schiera di epigoni e fino alle vette di Cossiga, credendo di cavarsela con gli incassi per conferenze, libri, mostre, i voti, il Parlamento, la celebrità, tutto a risarcimento di una solitudine sempre molto affollata di devoti e signorine sognanti e mercanti d’arte e collezionisti golosi che lo trattano da Vate.
Vittorio Umberto Antonio Maria Sgarbi non viene dalle piogge dei pineti di Versilia. Ma dalle aspirine di una farmacia di provincia ferrarese. Da quell’8 maggio 1952, Nino e Rina, i genitori, lo avvolgono nella bambagia. Lui scalcia. Cresce piccolo, miope, prepotente. In cortile rimedia occhiali rotti e lividi. A nove anni, per proteggerlo e respirare un po’ di quiete, mamma lo infila nel collegio dei salesiani. Dirà Vittorio: “Sono stati due anni di galera”. Lo cacciano per avere buttato giù dalle scale un insegnante. Sostiene (ridendo) di avere letto Proust a quell’età. Più probabile il Pinocchio. Frequenta il liceo classico Ariosto di Ferrara. Poi Bologna, laurea in Storia dell’Arte. Primo impiego alla Soprintendenza del Veneto, dove si appassiona ai minori del Cinquecento. Viaggia per cantine, contesse e salotti a caccia di tesori nascosti. Compra, vende. È così indaffarato da dimenticarsi dell’ufficio e finire in una rissa di processi per assenteismo, una condanna definitiva, ma narrativamente spassosa per le giustificazioni che il giovane Sgarbi rifila nei certificati e ai giudici: assente “per cimurro”, per “allergia matrimoniale”, per sincopato metabolismo: “Io raggiungo la pienezza delle forze nel pomeriggio e nel cuore della notte” disse al giudice, capitandogli dunque di essere malato la mattina e sano nel pomeriggio.
In quegli anni veneziani, la vita piena per Vittorio ha il biondo nome di Maria Teresa Rubin de Cervin Albrizzi, baronessa d’alte passioni, sua inseparabile musa per nove anni, capace, per gelosia di tagliare in pubblico la treccia della rivale Anna Gastel, bellissima nipote di Visconti, durante la pomposa inaugurazione di una mostra del pittore Pietro Longhi, rococò veneziano, con i cento ospiti, tra i quali Cesare Romiti, che si sbellicavano dalle risa, poco prima della cena.
A parte il Casanova (“ho tre figli accertati, ma potrei averne quaranta”) Vittorio ha avuto per mentore il grande Francesco Arcangeli, l’ultimo discepolo di Roberto Longhi, il maggiore storico d’arte di sempre. Vantandosene, molti anni dopo, organizzerà a Bologna una mostra dedicata ai due critici, intitolata nientemeno che Da Cimabue a Morandi, stroncata dalla protesta di 128 accademici, giudicata “priva di alcun disegno storico, un insulto alle opere, trattate come soprammobili”. Secca la sua replica: “Appello sfigato di invidiosi”, sbrigando la contesa nell’insulto. Che poi diventerà un intero catalogo di contumelie da cui estrarre, a seconda delle circostanze, quella che serve contro il nemico di giornata: “Mentecatto”, “Ateo bastardo”, “Nullità”, “Morto di sonno”, “Fascista”, “Verme infetto”, “Rincoglionito”, “Culattone raccomandato”, “Deficiente”, “Unto”, “Razzista”, “Ignorante”, “Plebeo”, “Mafioso”, “Criminale”, “Grassa”, “Pettegola”. Fino al suo celebre: “Capra, capra, capra!” gridato tredici volte, fino all’arrivo delle ambulanze.
Visti i proiettili che spara, Silvio B. lo imbraccia per una decina d’anni come sua personale mitraglia, quella degli Sgarbi quotidiani, 13 minuti di monologo, culminati in una lunga serie di processi per gli attacchi ai magistrati di Mani Pulite (“assassini!”), a Gian Carlo Caselli (“arrestatelo!”), a Ilda Boccassini (“va cacciata a pedate nel culo!”), a Prodi, Rutelli, eccetera. Cioè a tutti quelli che interferiscono con la cavalcata del suo datore di lavoro e di seggio – tre legislature con Forza Italia, le altre qui e là – fino all’epica di Ruby Rubacuori, la minorenne, che gli suggerì l’astuto sillogismo: “Se Berlusconi è colpevole, allora Pasolini?”, per la gioia degli avvocati difensori. E dell’imputato, che purtroppo non era poeta, ma presidente del Consiglio.
Messo più volte alla porta, gli piace rientrare dalla finestra di remoti paesi in cerca di un riflettore o almeno di un citofono. Fa il sindaco di San Severino Marche. Poi Salemi. Ora Sutri. Balconcini dai quali esercita il suo alto magistero mediatico. Talvolta servendosi di pure idiozie, come l’obbligo di NON portare la mascherina in pubblico, sua ultima ordinanza a Sutri. La maschera la indossa lui per tutti. Almeno fino al prossimo ballo, al prossimo sipario, alla prossima capra che ci casca.