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 2020  settembre 10 Giovedì calendario

Stefano Boeri ricorda la madre Cini

Intellettuale, femminista, progettista, designer, Compasso d’Oro, staffetta partigiana, raffinatissima espressione di una Milano creativa, impegnata e coraggiosa. Poteva sembrare una mamma ingombrante Cini Boeri, con quella vita «bellissima e intensa», la personalità unica, le battaglie politiche, gli incontri, le amicizie (Ferruccio Parri fu suo testimone di nozze). Non lo è stata, racconta il secondogenito Stefano, architetto come lei, talentuoso come lei. Cini era «tigre e chioccia», attenta e affettuosa, implacabile, «ironica e dolcissima», grande lavoratrice e vestale della famiglia, tre figli, sette nipoti, le amate nuore. È morta così Cini Boeri, nella sua casa milanese, senza soffrire, con i suoi «ragazzi» intorno. «Sapeva tenerci tutti insieme. E insieme siamo stati fino all’ultimo».
Novantasei anni. «Sono tanti», dice Stefano sereno e malinconico, il trambusto nella sua casa-studio nel cuore di Milano, le telefonate di condoglianze, le parole di affetto. «Fino a un anno fa andava in studio la mattina, tutti i giorni. Il lavoro era la sua vita, la teneva in piedi, la stimolava. Anche negli ultimi mesi, nonostante la fatica, continuava a progettare e disegnare, anche con le mani, è sempre stata una disegnatrice di forme, mia mamma».
L’architettura come motore, il senso profondo di un’esistenza che non si è mai concessa momenti di ozio, che ha preferito il lavoro – sempre – a una borghese esistenza da signora milanese. L’impegno alla spensieratezza. Notti a progettare, a fumare – «ha fumato fino a pochi mesi fa, non ha mai smesso» – a discutere con tutti. Tenace e combattiva in un mondo, quello dell’architettura, che nell’Italia del dopoguerra non era ancora pronto a confrontarsi con le donne progettiste, la Cini e la Gae (Aulenti), «così amiche e così diverse, ma sempre leali una nei confronti dell’altra, rispettose del lavoro altrui». Continua Stefano: «Al Politecnico Giuseppe de Finetti disse a mia madre: “Non puoi fare l’architetto! È una professione per uomini”». Si laureò nel 1951. Nonostante gli inviti più o meno palesi a rinunciare al cantiere, a fare la moglie e la madre. Durante un incontro del Tempo delle Donne del «Corriere della Sera» nel 2014, Cini raccontò con la sua solita ironia: «Marco Zanuso più brutalmente mi apostrofò: “Cini, non hai i coglioni per fare l’architetto”». Dimostrò a tutti che si sbagliavano.
Il lavoro e la famiglia, i due pilastri a cui Cini non volle mai rinunciare. Ricorda ancora Stefano: «Era fiera del suo Compasso d’Oro (lo ricevette nel 1979 e alla carriera nel 2011), orgogliosa dei suoi successi, pronta in ogni momento a sviluppare nuove intuizioni e collaborazioni. Eppure, nonostante una carriera così importante e totalizzante, per noi c’era, sempre. Concentrata sulle nostre vite, non ci perdeva mai di vista». E il rapporto con il figlio architetto, anzi, con l’archistar del Bosco verticale Stefano Boeri?
«Non abbiamo mai lavorato insieme. Per scelta. Parlavamo spesso di architettura, in modo sincero, a volte infuocato. Ognuno con le sue idee nel segno del rispetto reciproco. Erano confronti molto belli i nostri. E sapevo che la sua porta era sempre aperta per me. Era mia madre». Nessun complesso? «Nessuno. Anche mio figlio è architetto. E non ci sono conflitti...».
Progressista, milanese che sognava di avere un aereo privato «come Norman Foster per scappare nella natura appena possibile», laica. I funerali di Cini Boeri si terranno domani a Lambrate, ceneri come voleva, come aveva sempre deciso, autonoma e forte, indipendente, «caparbia e dolce, come piace ricordarla a noi figli». Quei figli per cui Zanuso la prendeva in giro: «Lo sai che i tuoi bambini hanno il testone? Sarà l’intelligenza, mi spiace». E lei: «Provocazioni che non mi ferivano anche perché i miei bambini erano bellissimi». E lui ancora: «Progetti la cappella dell’Asilo nido avendo un suocero mangiapreti?». Risposta: «Mio suocero era solo un repubblicano».
La serata in casa Boeri è un susseguirsi di ricordi teneri. Memorie di una vita straordinaria, quasi sempre vissuta nel quartiere di Sant’Ambrogio, vicino alla basilica. Storie di una donna fuori dal comune («morta di vecchiaia, dolcemente»), e di una madre stupenda, unica. Anche se non sapeva «per niente» cucinare.