il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2020
La melancolia di Fellini
Dei grandi anniversarî di quest’anno, ho fin qui omesso di ricordare il centenario della nascita di Federico Fellini. Ma come passarlo sotto silenzio? Si tratta di uno dei più grandi genî dell’intera storia del cinema. Una personalità della quale una delle cifre si può considerare un realismo fantastico: la realtà sempre vista con un alone magico e lunare. Di questa cifra elementi ricorrono: le processioni di seminaristi e pretini, che poi mettono capo al defilé cardinalizio in Roma. Oppure l’attenzione verso l’avanspettacolo: Luci del varietà, Roma. Questo è uno dei suoi tratti di genio, perché anche certe inquadrature sordide del pubblico non riescono a nascondere il fatto che l’avanspettacolo, capace di coinvolgere Totò, Peppino De Filippo, Sordi, è una grande forma d’arte trascorrente per lazzi osceni, volgarità …
Poi c’è sempre una melancolia che tinge di nero anche il comico. Pensiamo a I vitelloni, con quel che capita ad Alberto Sordi o a Leopoldo Trieste con il vecchio capocomico retore (Achille Majeroni), che lo porta di notte sulla spiaggia tempestosa nel tentativo di sedurlo. Da I vitelloni vien fuori il senso che non siamo nulla. In fondo lo stesso deriva da La strada e da Le notti di Cabiria, i films successivi. Poi arriva La dolce vita: la melancolia, il senso del nulla si avanzano, anche di tra il vitalismo del bagno nella fontana di Anita Eckberg o dell’eros facile e spinto. La dolce vita è anche un ritratto impareggiabile della società italiana della fine degli anni Cinquanta e dell’inizio dei Sessanta; ha dunque anche un forte valore politico. E qui si deve osservare come un artista in apparenza privo di diretti rapporti con la politica come Fellini sia in realtà anche d’essenza duramente politica: la sua inquadratura del mondo ne contiene anche un giudizio. Ecco perché non riesco a considerare una continuazione de La dolce vita La grande bellezza di Sorrentino, ove una mano atta al colore riesce al massimo a registrare a modo suo la realtà senza dare un giudizio su uomini e cose.
Viene Le tentazioni del Dottor Antonio. Solo un genio poteva comprendere quale genio e valorizzare Peppino De Filippo, il quale, grazie a lui, qui s’invera come sommo attore sì surreale, sì grottesco, ma tragico. Che peccato che a Totò non sia capitata l’occasione di lavorare con Fellini; il regista l’apprezzava tanto che in un’intervista lo chiama “San Totò”. Dopo 8½, svagato e surreale, e Giulietta degli spiriti, viene il Satyricon: un capolavoro della letteratura latina viene ricomposto e trasformato con assoluta fedeltà allo stile, non fosse, anche qui, l’aggiunta di un tocco di melancolia che l’originale non possiede.
La melancolia, proprio nel senso di umor nero, vince in Casanova. Il grande amatore e avventuriero si spense miseramente a Dux in Boemia, quale salariato del conte Waldstein e perseguitato dal maggiordomo. Le allucinate inquadrature di Fellini danno una trafittura.
Indi un altro duro documento politico, Prova d’orchestra; e ricordiamo che quasi sempre le musiche dei suoi films sono del grande compositore Nino Rota. Dopo E la nave va, l’avventura si chiude con lo struggente Ginger e Fred: anche questo, un trionfo della melancolia.