La Stampa, 9 settembre 2020
La crisi riporta il carbone a Pechino
È nel numero di progetti approvati di centrali elettriche che la Cina svela i suoi piani di sussistenza energetica: due nucleari contro oltre cento a carbone. Così nell’ultimo anno si è esplicitata l’inversione di marcia della seconda economia mondiale in materia di lotta ai cambiamenti climatici. La priorità, spiega il consulente del Consiglio per la difesa delle risorse naturali Yang Fuqiang, è sempre lo sviluppo di risorse pulite, efficienti e a basso contenuto di carbone ma il governo «per adesso deve valutare la sicurezza». Significa che il Paese è ben lontano dall’aver risolto le contraddizioni generate dalla necessità di energia pulita e la dipendenza dai carburanti fossili. «Il deterioramento delle relazioni con gli Usa ha ridato forza alla preoccupazione per la dipendenza dalle importazioni, mentre l’epidemia di Covid-19 ha sovraccaricato le infrastrutture domestiche mettendo in luce i colli di bottiglia nella distribuzione e nello stoccaggio», ha scritto lo scorso giugno la direttrice del Programma sull’energia in Cina dell’Oxford Institute for Energy Studies Michal Meidan. E ha spiegato: «Ormai le regioni ricevono più via libera sugli investimenti in carbone che sull’eolico o sul solare». Investimenti che, vale la pena di aggiungere, abbattono il costo dell’energia e favoriscono l’occupazione locale.
«Questa situazione è in qualche maniera figlia dell’epidemia: i progetti infrastrutturali su larga scala sono molto attraenti per i governi locali quando devono affrontare difficoltà economiche», spiega il funzionario per le politiche climatiche ed energetiche di Greenpeace East Asia Li Shuo. E infatti nel 2020 la Repubblica popolare ha dato l’ok a più centrali a carbone che nei due anni precedenti combinati e la loro costruzione beneficia di prestiti bancari e stimoli governativi per la ricostruzione. È un fatto che Pechino si stia occupando della ripresa economica – un’urgenza dopo che la crescita del Pil ha segnato un -6,8% nel primo semestre del 2020 – più che del rispetto degli accordi di Parigi. E il disimpegno degli Stati Uniti d’America sul tema non aiuta. Comunque secondo Dong Yue, ricercatore dell’Energy Foundation China, «è molto difficile che la Cina prenda una direzione chiara prima delle presidenziali Usa». Il prossimo 3 novembre, infatti, Washington va al voto e il giorno successivo dovrebbe, come deciso da Donald Trump, uscire dall’accordo di Parigi. Ma se l’attuale presidente fosse battuto dal democratico Joe Biden ci si aspetta che gli Stati Uniti rientrino immediatamente nell’accordo e, anzi, si facciano promotori di Cop26, i dialoghi Onu sul clima a cinque anni di distanza dall’accordo di Parigi (anch’essi posticipati al 2021).
Il gigante asiatico è lo Stato che consuma più energia al mondo e a Parigi si era impegnato a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030, se non prima. Dal 2010 al 2018 ha ridotto il consumo di carbone in maniera significativa (dal 69 al 59 per cento delle fonti energetiche) ed è diventato il Paese del mondo che investe di più in rinnovabili. Ma quest’anno si è trovato a dover dare priorità alle conseguenze economiche dei lockdown. Tra il primo e il 18 marzo 2020 le autorità hanno dato il permesso di generare più elettricità dal carbone di quanto non abbiano fatto per l’intero 2019 tanto che le centrali attualmente in costruzione una volta ultimate eguaglieranno da sole la capacità e la potenza di quelle in uso negli Stati Uniti. Di fatto, con il 13 per cento delle riserve di carbone dell’intero pianeta, Pechino mira a tutelare la sua autonomia energetica e a creare sviluppo e lavoro nelle regioni più arretrate, ovvero il nord e l’ovest del Paese.
L’opinione pubblica cinese si è a lungo battuta contro l’inquinamento, specialmente quello atmosferico. Se – con buona pace degli accordi di Parigi – il carbone tornerà in auge, sarà disposta a tollerarlo? Uno studio della Standford University che ha avuto larga diffusione durante i mesi in cui l’epidemia colpiva duramente il Paese calcola che il fermo delle attività produttive e la conseguente assenza di inquinamento ha salvato tra le 50 e le 70 mila persone da morte prematura. E al di là del fattore sanitario, l’energia pulita rappresenta un’opportunità di sviluppo economico non indifferente. La Cina produce due terzi dei pannelli solari al mondo e ha annunciato un investimento da 2,5 miliardi per un impianto che una volta ultimato raddoppierebbe l’energia solare prodotta dalla Cina e arriverebbe a coprire metà del fabbisogno globale.
Se nelle scelte di Pechino pesa più l’occupazione locale e l’autarchia energetica o la lotta ai cambiamenti climatici con l’innovazione tecnologica che ne consegue lo sapremo solo quando verrà svelato il 14esimo piano quinquennale, quello che quest’autunno traccerà linee guida e obiettivi per il 2025.