Corriere della Sera, 9 settembre 2020
Ali Soufan e l’11 settembre
«Non è solo una mia vittoria. È una vittoria per tutti, una pietra miliare per la libertà di informazione». Ogni anno, quando si avvicina l’11 settembre, Ali Soufan si rabbuia. Ex agente Fbi, 49 anni, di origini libanesi, Soufan – lo hanno raccontato molto bene il Pulitzer Lawrence Wright e la miniserie Amazon Looming Tower — era tra coloro che videro arrivare il pericolo prima degli altri, in seguito all’attacco in Yemen all’USS Cole. Ma dopo l’11 settembre, le torture (Enhanced Interrogation Techniques, tecniche di interrogatorio rinforzato, come le chiamava la Cia all’epoca), gli abusi e le foto da Abu Ghraib, convinsero Ali Soufan a lasciare. «Avevamo fallito tutti nel proteggere il nostro Paese», dirà anni più tardi.
Ora però, proprio a pochi giorni dall’anniversario degli attacchi alle Torri gemelle, dopo nove anni di battaglia legale con la Cia, The Black Banners: The Inside Story of 9/11 and the War Against Al-Qaeda, libro pubblicato da Soufan nel 2011, può essere rieditato nella sua versione integrale senza le censure dell’Agenzia, apposte per «motivi di sicurezza nazionale». Declassified, si dice in gergo.
«La Cia cercava di censurare tutti i passaggi che dimostrano come molte delle informazioni raccolte non fossero in realtà state ottenute grazie alle torture. Si è tentato di convincere l’opinione pubblica che basta fare water boarding a un terrorista perché inizi a parlare. Ma non funziona così, lo dico perché ero lì», scandisce Soufan al telefono da New York, dove dirige il think tank The Soufan Center.
Uno dei passaggi più controversi riguarda gli interrogatori di Abu Zubaydah, qaedista catturato in Pakistan nel 2002. «Fu grazie a dieci giorni di colloquio e a una coincidenza (Soufan mostrò al prigioniero una foto sbagliata, ndr) che Zubaydah iniziò a parlare di Khalid Sheikh Mohammad e del suo ruolo come mente degli attentati dell’11 settembre, informazioni che fino ad allora erano del tutto sconosciute alla Cia». Dopo quei colloqui, viene proibito a Soufan e all’Fbi di avere altri contatti con il prigioniero. E Zubaydah subisce il waterboarding 183 volte. «Non si può escludere che la privazione del sonno abbia indebolito la determinazione di Abu Zubaydah e lo abbia convinto a dare maggiore priorità al riposo che alla protezione delle informazioni», scriverà James E. Mitchell, uno dei due psicologi incaricati dalla Cia di testare le tecniche di interrogatorio rinforzato. Ma secondo tutte le prove raccolte negli anni successivi, dopo l’inizio delle torture Abu Zubaydah smette di parlare. Soufan decide allora di lasciare il black site ma mai fino ad oggi era stato autorizzato a spiegare il perché. «Era arrivata una bara e la Cia aveva deciso di rinchiuderci Zubaydah».
Oggi, diciannove anni dopo, mentre soffre guardando alla sua Beirut e mentre combatte contro una campagna di minacce che porta la firma del principe saudita Mohammed Bin Salman e che ricorda quella contro il suo amico Khashoggi, Soufan non ha dubbi: «Le immagini degli abusi sui detenuti sono state determinanti nel reclutare jihadisti. Quindi, la tortura ha aiutato i nostri nemici. E ha danneggiato la nostra credibilità nel mondo».