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 2020  maggio 27 Mercoledì calendario

Su "Due vite" di Emanuele Trevi (Pozza)

Era l’estate del 1995. Lo Stato francese aveva appena acquisito L’origine del mondo di Gustave Courbet dagli eredi dello psicoanalista Jacques Lacan. E tre amici si erano dati appuntamento al Musée d’Orsay per scoprire insieme quella piccola tela datata 1866, che con i mezzi del realismo metteva in scena l’umida «fonte di tutte le cose, la porta della vita: tra due cosce ben tornite e divaricate…».

I tre amici si chiamavano Rocco Carbone, Pia Pera ed Emanuele Trevi. E non sorprende che quel giorno sia rimasto significativo nella storia dell’amicizia dei tre, allora giovani letterati. Meno prevedibile, invece - almeno per questo lettore - è il fatto che Trevi, usando quell’episodio come miccia della sua nuova avventura narrativa Due vite (Neri Pozza, da oggi in libreria), sia riuscito a replicare quello che Rocco Carbone gli confessò di aver provato davanti alla tela di Courbet: l’emozione di una rivelazione estetica capace di destare sorpresa e meraviglia.


Chi ha letto il «romanzo» precedente di Trevi, Sognie favole, sa che questo autore così legato alla topografia e agli umori di Roma è da anni impegnato ad affinare una saggistica in cui la narrazione ha un peso prevalente, e in cui forte è la componente emozionale e passionale dell’autore. E anche se uno dei suoi modelli di riferimento sembrerebbe, fino a un certo punto, il Cesare Garboli di certi sublimi ritratti letterari (come quello di Antonio Delfini), l’approdo a cui giunge con Due vite è qualcosa di più intimo e personale: un’opera in cui ricordi, biografia e autobiografia s’intrecciano alla critica letteraria, e in cui il precipitato di una cultura conquistata sudando sangue in biblioteca (come direbbe il classicista Daniel Mendelsohn) illumina la pagina come smeriglio di vetri calpestati. Si fatica a trovare una parola irrilevante, in queste smilze 132 pagine; o una frase che non si muova in orizzontale e in verticale, carica allo stesso tempo di energia propulsiva e di gravità. Qualcuno potrebbe obiettare che una operazione di cesello e finezza di pensiero come questa non si realizza senza il sacrificio di quella ninfa danzante che è la spontaneità. Ma anche se così fosse, sarebbe un prezzo equo per una scrittura in cui respirano letteratura e miti, cinema e tempo perso, per non parlare dell’arte di osservare gli altri che diventa il setaccio attraverso cui filtrare sé stessi.


È una cifra, questa di Trevi, all’opposto di quella di Rocco Carbone, anima tormentata e autore di romanzi ascetici, mondati da ogni riflesso emotivo. «Le Furie che lo braccavano da quando era al mondo, fra tregue e nuovi assalti, prosperavano nel manierismo, nella complicazione, nell’incertezza dei segni e dei significati. Testardamente, lui cercava di semplificare, di ripulire. Se l’anatomia umana glielo avesse consentito, si sarebbe spesso e volentieri lucidato le ossa e i nervi con uno spazzolino di ferro».


Rocco Carbone era un calabrese nato nel 1962 che in quel nome da perizia geologica aveva trovato un riflesso della propria fisionomia. Quando Trevi lo incontra a Roma è un giovane studioso dai lineamenti marcati, un gran camminatore e un judoka. Diventerà un amico generoso, complicato e sempre in credito d’affetto; e un uomo incline a guastarsi il sangue per i più futili motivi.


Tra loro, «l’incantevole Pia», «la nostra adorata Pia», l’amica che quando erano insieme doveva spendersi per fare sì che gli altri due non litigassero, è un’anima leggera, uno spirito prensile e mobile. La bussola d’oro della curiosità l’aveva portata a inseguire le strade della slavistica, della narrativa e della botanica a Mosca, a Milano e nel giardino del suo podere fuori Lucca, città dove era nata nel 1956. Il suo anticonformismo era così naturale che certuni, forse perché aveva studiato a Londra, pensavano che assomigliasse a «una signorina inglese».


Entrambi avevano gustato la propria dose di fiele. Rocco nel non vedersi riconosciuto il successo a cui aspiravano i suoi romanzi — pur sapendo che tutta quell’opera di scarnificazione «era mestizia per palati fini». Pia per via di una vita amorosa che aveva inanellato una collezione di «vermi» (termine suo), l’ultimo dei quali la lasciò alle prime avvisaglie della malattia che l’avrebbe uccisa. In quel conto negativo era scritto anche il naufragio del suo progetto più ambizioso: il romanzo che narrava la storia della Lolita di Nabokov dalla prospettiva della ragazzina. Accolto con benevola indifferenza in Italia, Diario di Lo era stato al centro di un’umiliante battaglia legale negli Stati Uniti, a cui era seguita l’isterica condanna di una critica gelosa fino a rendersi ridicola. Fortuna che Pia «era cavalleria leggera. Mentre si leccava una ferita, era già risalita in groppa».


A onor di Pia Pera, che qualche americano particolarmente demente paragonò allora a Hitler, va detto che non le faceva difetto un certo gusto di scandalizzare (Trevi lo chiama un modo di intendere la vita «libertino»), come dimostrano i racconti giovanili di La bellezza dell’asino. E che il suo eros maltrattato dai «vermi» si prese comunque una rivincita nel piacere che le diede confrontarsi con la grande letteratura russa, a partire dalla traduzione dell’Eugenio Onegin di Puškin che Trevi definisce «un capolavoro di leggerezza, lirismo, duttilità».


Se ne sono andati presto entrambi — entrambi dopo aver dato alle stampe la propria opera più alta. Rocco schiantandosi in motorino contro un’auto in seconda fila, a Roma, sei anni dopo aver pubblicato L’apparizione. Pia non lontano dallo stagno che aveva creato con le proprie mani nel giardino delle meraviglie della sua casa sotto i Monti Pisani, poco dopo aver pubblicato Al giardino ancora non l’ho detto.


In ogni amicizia c’è un rimorso, scrive Trevi citando Garboli su Delfini. Una frase che chiunque potrebbe sottoscrivere. Parafrasandola alla luce di Due vite, verrebbe da dire che in ogni rimorso c’è un tesoro nascosto: da dissotterrare magari con fatica, lucidare con l’abnegazione che merita, e condividere con la generosità di mezzi che è la ricompensa della vera letteratura.