la Repubblica, 8 settembre 2020
Djokovic o la solitudine del numero uno
Nell’autografarmi quattro anni fa il suo libro, Il punto vincente, con la postilla «dedicato a Jelena Ristic, mia moglie, che è tutto per me, e al popolo serbo», Novak Djokovic non poteva certo prevedere che avrebbe un giorno colpito una giudice di linea, l’altro ieri con una palla durante il match contro Carreno Busta in un istante di furore.
Non era certo ipocondriaco, né uno di quegli atleti che perdono la motivazione quando il gioco si fa duro, Nole: era uno che nel passato mangiava male finché il dottor Cetojevic lo vide in tv. Non un appassionato di tennis (ma sua moglie sì), e il dottore dedusse che i suoi problemi respiratori derivavano dal cibo ingerito. Il serbo non sapeva niente del libro di Cetojevic, ma l’incontro con il medico cambiò il suo modo di mangiare. In cinque mesi era dimagrito da 82 a 78 chilogrammi.
Ma prima ancora Nole aveva un altro debito, verso un’altra Jelena, Jelena Gengic, che aveva già allenato Monica Seles. «Vuoi giocare anche tu?» gli chiese quando era un bambino. E lei, con la famiglia, contribuì alla sua educazione sportiva e intellettuale plasmando il campione. La famiglia di Nole invece gestiva una pizzeria, che oggi ha aperto in Serbia una catena di ristoranti gluten free e li ha chiamati semplicemente Novak: ma mangiare meglio per avere prestazioni fisiche e mentali migliori non è stato sufficiente a impedirgli un attimo di furore in seguito al quale ha colpito una giudice di linea. Un attimo di furore in cui deve avere dimenticato tutto, anche l’esistenza di persone fidate e care.
Ricordate la citazione di Winston Churchill: «Ci guadagniamo da vivere con ciò che facciamo ma ci costruiamo una vita con ciò che diamo». Seguono, nel libro di Djokovic, alcuni accenni alla sua racchetta. Alla quale il giocatore regala un’anima, il prolungamento del proprio braccio e del proprio intuito. Non è colpa della racchetta, sicuramente è stata soltanto colpa sua, la pallata alla gola della giudice di linea. Lui non avrebbe mai immaginato che una nuova alimentazione potesse farlo sentire così bene, così capace, al di là di quei due secondi nei quali ha scagliato la palla.
Mi sembra quasi di sentirlo, se fossi stato a New York: «Non avevo ancora finito di colpire la giudice di linea che mi ero già scusato con lei. È stata una autentica sventura quella di colpirla, specialmente alla gola. Non riuscirei mai a rifarlo, ci riprovassi fino a cento volte». Qualcuno parlerà di follia, io lo ritengo un giudizio esagerato. Preferisco pensare che Djokovic sia stato a sua volta colpito dalla solitudine dei numeri uno che ha fatto a tratti impazzire nei secoli molti più famosi di lui. E lo perdono, perché ha già scontato la pena: non vincerà un altro Slam al quale sembrava predestinato.