la Repubblica, 8 settembre 2020
Reportage dal Sahel
BOUGOUNI (MALI) — È una terra secca e rocciosa, dove la zappa fatica a penetrare, quella attorno agli smagriti banani che Amadou Ségou s’affanna a vangare. Eppure, la stagione delle piogge è appena finita. «Ma non è mai stata breve come quest’anno», si lamenta Ségou, contadino sessantasettenne di Bougouni, cittadina del Mali a meno di duecento chilometri dalla capitale Bamako, funestata come il resto del Paese e come tutto il Sahel dalle drammatiche conseguenze del cambio climatico. «Da tempo i raccolti ci danno appena di che nutrirci, ma quello che più mi preoccupa sono i nostri ragazzi che ormai non cercano neanche più di arrivare in Europa, rischiando di morire nel deserto o di affogare nel Mediterraneo. Hanno trovato un’alternativa più conveniente: arruolarsi nella Jihad», dice ancora il contadino.
Bougouni, sulla strada che porta in Costa d’Avorio, è stata infiltrata dai gruppi terroristi solo di recente. «Molti scelgono di unirsi a loro solo per sopravvivere, perché combattere per i jihadisti significa anzitutto riscuotere un salario», spiega Ousmane Sow, urbanista e ambientalista che incontriamo a Bamako. «I leader delle diverse legioni islamiste sono sia uomini in rivolta contro i cinquemila soldati francesi dispiegati in Mali che considerano invasori, sia mercenari di chi ha interesse a destabilizzare la regione. Per loro è sempre più facile reclutare nuove forze perché sono sempre più numerosi i giovani che muoiono di fame».
La popolazione dell’Africa sub-sahariana conta circa 650 milioni persone, che tra trent’anni saranno 1,4 miliardi. Due famiglie su tre ancora vivono in zone rurali. Sono allevatori o agricoltori che ormai s’arrangiano a stento con i prodotti della terra, e che non hanno nessuna responsabilità delle emissioni dei gas a effetto serra, pur essendo i primi a subirne le devastanti conseguenze, prima tra tutte la siccità. Nell’ultimo anno, diversi Paesi del Sahel sono stati colpiti da altre due piaghe: le locuste e il Covid 19, che ne hanno ulteriormente indebolito i loro fragili e spesso inadeguati governi, rinforzando invece i tanti gruppi armati, siano essi terroristi, banditeschi o entrambe le cose. Accade intorno al lago Ciad, la cui superficie è stata ridotta di nove decimi per via della forte diminuzione delle piogge. Dalla Nigeria dove nacque nel 2002, Boko Haram ha inviato parte dei suoi miliziani sulle rive del lago, dove in assenza delle forze di sicurezza ciadiane, camerunensi e nigeriane, questi possono impunemente saccheggiare il bestiame e i raccolti nei villaggi e gestire indisturbati il contrabbando di droga e armi. Boko Haram è l’esempio flagrante di come in un’area afflitta da una crisi climatica un’organizzazione terrorista possa germogliare e dilagare.
Attivo in Mali, Niger e Mauritania, Al Qaeda nel Maghreb islamico, o Aqmi, è da poco tracimato anche nel Burkina Faso. In queste terre di nessuno, che messe assieme sono più vaste dell’Europa, le popolazioni locali sono state costrette a creare cellule di auto-difesa che servono anche a proteggere i loro terreni agricoli o i loro pascoli. «Ora, per estendere il loro controllo, i gruppi terroristi del Sahel hanno cominciato a soffiare sul fuoco dei conflitti inter- etnici, esacerbando le antiche faide tra agricoltori e allevatori», dice ancora Ousmane Sow. I salafisti del Fronte di liberazione della Macina hanno recentemente arruolato nelle loro fila dei giovani Peul, tradizionalmente pastori. Il che, per reazione, ha fatto nascere bande di auto- difesa degli agricoltori Dogon e di conseguenza moltiplicato gli scontri tra le due etnie. Negli ultimi due anni, questa guerra tribale ha provocato più di duemila morti e duecentomila profughi fuggiti da ciò che gli uomini della missione Onu in Mali, la Minusma, ha definito «scene di orrore assoluto».
L’esercito controlla il 30% del Paese, ma nessun area è sicura, neanche Bamako, dove si contano diverse cellule “dormienti” in grado di compiere attacchi micidiali nei ristoranti e alberghi di lusso. I leader maliani e quelli delle forze straniere sono sempre più consapevoli che per sconfiggere il terrorismo nel Sahel non bastano più i fucili dell’esercito e le bombe sganciate dai droni francesi dell’operazione Barkhane. Come suggerisce la missione Ue di capacity building, Eucap-Sahel-Mali, insieme all’invio di soldati nelle regioni più insicure è necessario riportare lo Stato, e cioè le scuole, i tribunali, i presidi sanitari. «Bisognerà anche aiutare le nazioni coinvolte insegnando loro ad adeguarsi al cambio climatico, altrimenti la situazione non potrà che peggiorare», ammonisce l’ambientalista Sow. Tutto ciò per evitare che il Sahel diventi per noi europei una bomba a scoppio ritardato.