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 2020  settembre 08 Martedì calendario

Donne, se lui vi picchia è solo colpa sua

È sbagliato (e anche un bel po’ violento) dire alle donne che se non si ribellano agli uomini violenti sono complici. Chiunque lavori in un centro antiviolenza, o abbia misurato nella propria storia la complessità di un rapporto abusante, sa perfettamente che i meccanismi che legano le donne ai loro aguzzini sono difficili da rompere per molte ragioni. La principale è psicologica: prima che una donna abusata si renda conto che quello che subisce è violenza e non amore possono passare anni. La confusione tra cosa sia un conflitto di coppia – che capita a chiunque – e cosa sia invece un reato è totale. Nella prima fase dell’uscita dal rapporto violento, la stragrande maggioranza delle donne abusate che ho incontrato non sapeva fare la differenza. Né del resto sapevano farla i loro familiari, i loro vicini di casa e i loro colleghi. In qualche caso non sapevano distinguere tra reato e conflitto neanche le forze dell’ordine a cui le donne si sono rivolte.
Avevo 17 anni quando ho sentito un carabiniere dire a mia madre: «Signora, torni a casa e faccia pace, vorrà mica rovinare una famiglia per uno schiaffo?». L’immaginario in cui ciascuna di noi abita è costruito su un canovaccio vecchio di centinaia d’anni. Vi si radicano prima di tutto le esperienze familiari, a partire dal modo in cui i propri genitori hanno interpretato i rapporti di potere tra uomini e donne. I sentimenti nascono spontanei e analfabeti, ma ad amare in una relazione matura si impara solo se qualcuno te lo insegna. Se però ti viene insegnato a chiamare «amore» un rapporto di dominio, è assolutamente normale che uno schiaffo, quando ti arriva, ti sembri una carezza ad alta velocità. Chi è figlio di un genitore abusante si è spesso sentito dire che le botte erano per il suo bene, imparando l’orrenda lezione che il voler bene sia l’alibi per fare all’altro ogni male. È vero esattamente il contrario: voler bene implica proprio la radicale rinuncia a fare all’altro tutto il male che gli si può fare. Se non lo dirimi, questo equivoco rovinoso si trasferisce di peso dentro alle relazioni successive e prima di scardinarlo ci vuole tempo e molto aiuto esterno.
Il secondo fattore che impedisce alle donne abusate di sottrarsi subito al proprio carnefice è culturale e parte dal linguaggio. Molto lo fanno i luoghi comuni – «amore malato», «amore violento», «amore criminale» – nei quali patologie e reati vengono evocati e minimizzati dentro la cornice amorosa. Frasi come «l’uomo è cacciatore», usate per descrivere e giustificare l’attitudine seduttiva del maschio, sembrano non tenere conto che il cacciatore la preda la insegue per ucciderla. Ogni volta che nel linguaggio comune noi associamo l’amore alla malattia, alla violenza e alla morte stiamo insegnando alle nostre figlie che se gli uomini le picchieranno non sarà perché non le amano, ma perché le amano male. Vorrebbero, ma non riescono, poverini. Va da sé che glielo debba insegnare tu. L’inversione sociale che muta il carnefice in vittima – complice (lui sì) un certo giornalismo che titola idiozie come «gigante buono», «raptus sentimentale», «impazzito d’amore» – ci vede tutti chiamati in correo e non si può pensare di scaricare questa responsabilità sull’unica persona che di questa narrazione collettiva paga il prezzo finale.
C’è infine un terzo aspetto, che mi pare che anche stimate professioniste tendano troppo facilmente a dimenticare: le donne abusate non sono solo donne picchiate, ma persone che da anni subiscono un processo di annichilimento della loro autonomia e autostima. Moltissime sono state rese dipendenti economicamente oppure lo sono sempre state. Tutte sono state progressivamente isolate da amici e parenti che potevano aiutarle e spesso hanno figli che temono di perdere o non poter mantenere. Temono di non essere credute, perché gli uomini violenti sovente hanno maschere sociali rispettabilissime e stuoli di uomini e donne pronti a giurare che no, proprio picchiare una donna non lo farebbero mai. Soprattutto sono spesso donne educate a considerare la dimensione sentimentale e relazionale come il fondamento essenziale della loro identità personale e sociale.
Agli uomini si insegna che il matrimonio e i figli sono una delle cose che possono succederti nella vita. Alle donne si insegna che è la cosa principale che può accaderti, al punto che se non ti accade devi spiegare perché. Ammettere il fallimento di una relazione per un uomo cresciuto in modo patriarcale è un fatto doloroso, ma superabile. Si va oltre, c’è il lavoro, ci saranno altre donne. Per una donna la fine di un matrimonio in certi ambienti italiani è l’ammissione del fallimento di una vita, la certificazione della sua inadeguatezza femminile, la prova che «non si è saputa nemmeno tenere un uomo» e ora dovrà affrontare il baratro della solitudine. Tutti questi fattori frenanti si danno appuntamento nell’istante in cui, davanti all’ennesimo abuso, ti sovviene il pensiero che forse te ne potresti andare. In quel momento spero che ogni donna abusata incontri qualcuno che non le dica «è colpa anche tua», ma che l’abbracci e le sussurri «se sei sopravvissuta a questo, potrai farcela oltre questo». Funziona, lo garantisco.