il Giornale, 7 settembre 2020
Biografia di Giuseppe Moro
Può una «vita disperata» essere oggetto di invidia? Sì, se la vita è quella di Giuseppe (Bepi) Moro; nome sconosciuto ai più, ma ben noto a chi, tra gli anni ’50 e ’60, condivideva la sua stessa «missione»: stare in porta ed evitare gol. Insomma, parare. Sempre e comunque, solo come i grandi portieri sanno fare. Ecco cosa dice di lui Dino Zoff, campione parco di parole, figuriamoci di complimenti: «Nel mio ricordo, come in quello di tutti gli appassionati di calcio, Giuseppe Moro rimane un artista della porta, un vero e proprio mito». Lo Zoff mondiale che definisce «mito» un collega ignoto alle platee internazionali? Incredibile ma vero. Un «miracolo» difficile da spiegare, in cui si intrecciano miserie e nobiltà: nell’esistenza di Moro a vincere sono state le prime, eppure la sua rimane un’avventura fantastica.
Ma l’epopea umana e sportiva di Moro non sarebbe mai arrivata a noi, se l’ultimo tratto di strada di Bepi non avesse incrociato la penna ispirata di un giornalista come Mario Pennacchia.
Siamo alla metà degli anni ’60, l’immagine di Moro, che le cronache definiscono «portiere acrobatico con un talento speciale per le parate impossibili», è macchiata dalle calunnie che lo mettono all’indice come «uno propenso a vendersi le partite». E così, dopo tanta serie A e qualche prestigiosa presenza in Nazionale, Bepi si ritrova sempre più emarginato. Ci mette del suo a peggiorare la situazione: ha un carattere forte, roba che non piace ad allenatori e dirigenti. Commette errori. Li pagherà carissimo. Una «discesa agli inferi», fin sull’orlo del suicidio. Per salvarsi dalla miseria va ad allenare la squadra di un villaggio tunisino. È solo, lontano dalla sua famiglia. Dentro di lui riecheggiano le voci nere dei ricordi, dei torti subiti. E se la soluzione fosse liberarsi di quei tanti pesi? Cercando la pace. Magari trovandola.
Il 30 novembre 1965 Bepi si presenta alla redazione del Corriere dello Sport, testata che aveva sempre esaltato i suoi «autentici prodigi» o – come le definiva Gianni Brera – le sue «impensabili prodezze». Il giornale si trasformerà nel confessionale di un campione finito in disgrazia, di un eroe cui le medaglie sono state strappate dal petto e gettate nel fango. Il direttore, Antonio Ghirelli, lo affida a un giovane e brillante cronista, Mario Pennacchia, che per giorni raccoglie lo sfogo di Moro. Verranno fuori dieci puntate seguite dai lettori come un romanzo d’appendice. Ma a distanza di tempo quel diario diventerà, grazie alla cura di Massimo Raffaeli, anche un libro di memorie amarissime, La vita disperata del portiere Moro (ISBN Edizioni). Una lettura che è un tuffo (o un volo?) all’incrocio dei pali della vita. Quella del portiere Moro, certo. Ma forse anche quella di ognuno di noi. Attimi felici che si alternano a parentesi angosciose. Il piedistallo del successo, poi le rovinose cadute. In mezzo un mare di rimorsi. E quella maledetta domanda che non ti abbandona mai: «Dove ho sbagliato?». Allora meglio parlare, soffocando le umiliazioni. «Una volta non avendo i soldi per il biglietto, entrai all’Olimpico (nella Roma aveva giocato dal ’53 al ’55) grazie alla complicità di un inserviente, ma vennero a cercarmi sugli spalti per cacciarmi fuori. Io che in azzurro avevo fermato Puskas nella bolgia di Budapest, io l’eroe dell’epica partita di Londra, ero diventato un ospite sgradito».
Nel 1950, in tutta Italia si diceva: «Sai che Sentimenti IV (altro leggendario portiere juventino e della Nazionale) è andato in Africa?», «Davvero? E a fare che?», «Per diventare... Moro!». E invece in Africa il destino mandò Bepi: «In Italia rischiavo di morire di fame. Tutti si giravano dall’altra parte. Porte sbattute in faccia. Eppure io non chiedevo elemosine, ma solo un lavoro per tirare a campare con la mia famiglia». Niente. Aveva fatto parte della Nazionale al Campionato del mondo brasiliano del 1950, in serie A aveva neutralizzato 46 rigori. Eppure, per il famigerato «ambiente del calcio» era diventato un appestato. Da scansare. Invisibile. Un fantasma di cui avere paura. Forse perché di cose da dire, Moro, ne aveva tante, troppe. Segreti imbarazzanti. Pericolosi. Non a caso la sua confessione davanti al taccuino di Pennacchia si apre con una frase da brivido: «Nessuno ha mai scritto quello che ora le detterò. Nessuno ha mai letto quello che lei scriverà».
I disonesti, quelli veri, sapevano che Bepi poteva rovinarli, e allora meglio costruire attorno a lui la «fama» peggiore, per meglio screditarlo. Ma chi ha conosciuto da vicino Moro sapeva che era una persona onesta. Se non fosse stato così Pier Paolo Pasolini non lo avrebbe mai battezzato lo «Zamora italiano», Giorgio Ghezzi (il kamikaze) non avrebbe mai detto: «Moro è stato senza dubbio il più grande portiere che ho conosciuto. Vederlo in azione era una cosa fantastica, un momento magico».
Pennacchia coglie l’anima del personaggio: «Davanti a me vedevo un uomo vero. Schiacciato dalla solitudine, dall’ingratitudine umana. Parlava di cose mai dette prima, perché in Italia non aveva trovato ascolto da nessuna parte».
«Calciopoli» era ancora lungi dall’arrivare, ma la puzza delle partite truccate è sempre stata la stessa. Ma nel caso di Moro nessuna «tresca» fu mai dimostrata. Solo «dicerie», dettate da invidia e cattiveria. Perché Bepi non era uno che le mandava a dire. Se ancora oggi si dice che «per fare i portieri bisogna essere un po’ matti», gran merito è di Moro che, di pazzie, ne ha fatte parecchie.
Giocava nella Fiorentina. Arriva la Juventus. Lancio lungo: Moro esce chiamando la palla ma un difensore viola, tentando la rovesciata, serve involontariamente Boniperti che insacca a porta vuota. Dietro la porta un dirigente inveisce contro Bepi: «Ecco, questi sarebbero i campioni». Imprevedibile la reazione di Moro: su colpo di testa di un attaccante bianconero, afferra la palla ma, ripensando all’insulto appena ricevuto, la scaglia volontariamente in porta, urlando «Se non sono un campione è giusto che prenda gol». Dopo quell’episodio, ne seguirono altri, ugualmente controversi. Le «100mila lire» nel corso degli anni aumentarono a dismisura. Ma quel ragazzo, detto Bepi, nato a Carbonera (Treviso) il 16 gennaio 1921 e morto a Porto Sant’Elpidio (Fermo) il 28 gennaio 1974, quei fantomatici «milioni per perdere» non li incassò mai. Fu un addio «disperato», il suo. Ma pulito. Se non fosse stato così, un campione integerrimo come Zoff mai avrebbe inviato la sua maglia della Nazionale al funerale di Moro: «L’avevo visto giocare poche volte e solo quando era alla fine, purtroppo, ho saputo della vita disperata di cui mi avrebbe poi parlato tante volte l’amico Mario Pennacchia. Così, quando seppi della morte di Moro, mandai a Treviso, in segno di stima e di riconoscenza, la mia maglia della Nazionale. Fu un gesto istintivo, da parte mia, perché nel gennaio ’74 quella era una maglia imbattuta da anni e Giuseppe Moro, che l’aveva onorata, era degno di indossarla come nessun altro».
Ma il mistero Moro non si esaurisce con la morte di Bepi. A rilanciarlo rimane Pennacchia, con una domanda che resta a mezz’aria, con uno dei mitici voli di Bepi: «Ma chi è davvero quest’uomo? Un mostro, un diavolo, un dannato, una vittima, un eroe, un bandito?». Forse, più semplicemente: un portiere.