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 2020  settembre 07 Lunedì calendario

Storia di Carlo De Benedetti

«Ingegnere, lei è in arresto». Bisogna tornare a quel pomeriggio di novembre del 1993, nella caserma milanese di via Moscova, per capire fino in fondo il rapporto di Carlo De Benedetti con la giustizia. Perché quando l’altro giorno l’Ingegnere rinfaccia a Silvio Berlusconi i suoi trascorsi giudiziari, in realtà affronta un tema che lo ha visto coinvolto anche personalmente. E lui, a differenza del suo arcinemico, ha provato l’onta del mandato di cattura e della galera. È una macchia che si porta dentro, e che lo porta – più o meno consciamente – a ribaltare sull’avversario colpe di cui, in modo ben più drammatico, lui stesso è stato chiamato a rispondere.
Eppure quella volta era convinto di aver trovato il modo di farla franca. Nel pieno della tempesta di Mani Pulite, quando aveva capito che le indagini del pool si avvicinavano pericolosamente alle tangenti versate dalla sua Olivetti ai partiti della Prima Repubblica, aveva mandato i suoi legali a trattare a Palazzo di giustizia, chiedendo di incontrare Di Pietro e i suoi colleghi a piede libero, promettendo di consegnare loro un memoriale-confessione. Una sorta di salvacondotto che all’epoca chiedevano molti imprenditori, con alterne risposte: due mesi dopo ci provò anche Raul Gardini, a lui dissero di no, e l’inventore di Enimont si fece saltare le cervella. A De Benedetti invece venne detto di sì. E il 16 maggio 1993 poté incontrare i pm nella caserma dei carabinieri di via Moscova, ammettendo quello che fino al giorno prima aveva negato giurando e spergiurando: cioè di avere comprato appoggi e appalti a botte di miliardi. Per sbarcare nel business delle telescriventi, aveva autorizzato un suo manager a trattare le stecche con un dirigente delle poste: «Dopo una contrattazione tra Cherubini e Parrella, il quale chiarì che tutti i fornitori dovevano pagare una quota ai partiti; si arrivò ad un accordo in base al quale Olivetti avrebbe pagato come tutti gli altri fornitori». Una corruzione gigantesca, tanto che il giorno dopo Eugenio Scalfari su Repubblica si dichiarò «ferito e sconvolto» dalla confessione del suo editore. Il pool si limitò a indagarlo a piede libero.
Ma l’Ingegnere non aveva fatto i conti con la complessità della macchina della giustizia. Perché, essendo state pagate a Roma le mazzette, l’inchiesta sulle tangenti alle poste venne trasferita a Roma. E qui approdò nelle mani di due magistrati meno comprensivi di quelli milanesi, il pm Maria Cordova e il gip Augusta Iannini. Che raggiunsero nei confronti di De Benedetti la stessa certezza che a Milano aveva spedito in galera tanta gente: lasciato a piede libero, l’uomo avrebbe potuto continuare a delinquere. E il 30 ottobre 1993, cinque mesi dopo il colloquio con il pool milanese, De Benedetti si vide colpire da un mandato di cattura per corruzione. Era all’estero per il weekend. Il 2 novembre 1993, il giorno dei morti, rientrò in Italia, si presentò dai carabinieri. E lì trovò l’ufficiale che lo dichiarò in arresto, lo caricò su un’auto e lo portò a Roma. Gli vennero risparmiate le manette, non le foto segnaletiche e le impronte digitali. A Roma, lo portarono di filato a Regina Coeli, e lo chiusero in cella. Mai, neanche nei suoi peggiori incubi, il patron di Repubblica avrebbe immaginato una sorte così spietata, dopo mesi di plauso dei suoi giornali al repulisti di Mani Pulite.
Durò poco. Dodici ore dopo essere entrato in cella, un secondino lo avvisò che era già arrivato il momento di uscire: a casa, ai domiciliari. Tre giorni dopo, gli permisero di spostarsi a Milano, per stare agli arresti nella sua casa di via Ciovasso: arrivò a Linate con il suo aereo privato, accompagnato dall’addetto stampa, e rispose ringhiando a un cronista che gli chiedeva se davvero, insieme ai finanziamenti sottobanco, avesse fatto arrivare in regalo a Bettino Craxi anche dei cimeli garibaldini. Al momento del processo, arrivato ben dieci anni dopo, se la cavò senza danni: lo assolsero per due capi di accusa, e per gli altri due se la cavò con la prescrizione grazie alle attenuanti generiche. Maria Cordova, il pm che aveva condotto l’indagine e che lo aveva arrestato, manifestò il suo stupore per il fatto che «le attenuanti sono state concesse agli imputati maggiori e negate a quelli minori».
Sono passati ventisette anni da quelle dodici ore a Regina Coeli. Ma chissà se Carlo De Benedetti riuscirà mai a buttarsele alle spalle.



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L’espressione più colorita, ma forse più efficace, l’ebbe Orazio Bagnasco, destinato a prendere il posto di Carlo De Benedetti nel vertice del Banco Ambrosiano, raccontando ai giudici le confidenze di Francesco Micheli, finanziere di fiducia dell’Ingegnere: «Proprio siffatte informazioni avevano consentito al De Benedetti di iugulare il Calvi al momento di concordare le modalità di uscita dal Banco». Iugulare: un verbo che nel dizionario non c’è. Ma che racconta bene l’approccio che la sentenza del 16 aprile 1992 del tribunale di Milano attribuisce a Carlo De Benedetti, ex editore di Repubblica e oggi di Domani. E che forse racconta bene anche l’animo di un uomo che davanti a un avversario in pericolo di vita sceglie di infierire su di lui: come l’Ingegnere ha fatto nei giorni scorsi con Silvio Berlusconi.
La sentenza che riporta la testimonianza di Bagnasco è l’atto più illuminante e riassuntivo della carriera giudiziaria di De Benedetti. È la sentenza di primo grado per lo scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il più fosco tra gli scandali bancari italiani. De Benedetti sedeva sul banco degli imputati insieme a Licio Gelli e al resto della P2 (Calvi era già stato impiccato a un ponte di Londra), e il tribunale lo condannò a sei anni e quattro mesi concorso in bancarotta, per «l’indebito ingentissimo guadagno lucrato» ai danni dell’Ambrosiano. Il seguito della vicenda è noto: condanna ridotta in appello, e poi annullata dalla Cassazione in base a un curioso ragionamento, secondo cui essendo stato indagato prima per estorsione e poi per bancarotta, De Benedetti non poteva venire condannato per nessuno dei due reati. Poco conta che imputati di filoni laterali, come i disturbatori di assemblee, venissero poi condannati per entrambe le accuse. E vano sarebbe ora chiedersi perché la Procura di Milano, dopo l’annullamento della condanna, non incriminò nuovamente l’Ingegnere: alla prescrizione mancavano ancora otto anni. Anche quella volta, De Benedetti seppe difendersi bene.
Ma i fatti, quelli rimangono, mai messi in discussione né in appello né in Cassazione. Li raccontano le 270 pagine dedicate a De Benedetti delle motivazioni della sentenza di primo grado, scritte dal giudice Pietro Gamacchio. Dentro, ci sono prologo ed epilogo dei tre mesi cruciali della vicenda: tra il 16 novembre 1981, quando la Cir (la holding dell’Ingegnere) compra un milione di azioni del Banco e De Benedetti ne diventa vicepresidente, e la fine del gennaio successivo, quando se ne va con una «liquidazione dorata» (testuale nella sentenza). Gli vengono ricomprate tutte le azioni, anche quelle che non ha mai pagato, insieme al prezzo d’acquisto gli vengono versati gli interessi, e la banca si impegna a vendere al suo posto 32 miliardi di azioni di una finanziaria. Un salasso, per i conti dell’Ambrosiano prossimo al collasso.
Dietro, per i giudici, c’è una storia semplice: De Benedetti entra nell’Ambrosiano sapendo benissimo degli affari sporchi della banca, e punta ad approfittarne per cacciare Calvi e prendere il suo posto. Dirà nella sua arringa Lodovico Isolabella, difensore di un imputato: «Quando mettono in prigione Calvi, De Benedetti pensa che sia il momento giusto per dire: ecco, qui faccio l’affare della vita mia». Ma quando Calvi contrattacca e gli chiude la strada, De Benedetti pretende soldi in cambio del suo silenzio. In cambio dei segreti sui rapporti con lo Ior del Vaticano che non ha reso noti né al consiglio d’amministrazione né alla Banca d’Italia.
E c’è un altro aspetto della sentenza che illumina ancora di più il modus operandi che ha fatto grande De Benedetti: il rapporto d’acciaio con il potere politico, la contiguità con lo Stato. Ad aprirgli la strada verso l’Ambrosiano è Bruno Visentini, che prima di diventare presidente della Olivetti è stato ministro della Finanze. Quando va in Vaticano a parlare dello Ior col cardinal Silvestrini, ci va insieme al ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. E quando Calvi gli fa arrivare una letteraccia anonima, lui invece che al commissariato di zona la porta al Quirinale, a Pertini. A uno così, come potrebbero andar male gli affari?