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 2020  settembre 07 Lunedì calendario

La fine della concorrenza

L’Italia non ha mai amato la concorrenza. Né la politica, né il sindacato, né una parte maggioritaria del Paese. La politica considera concorrenza e divieto di aiuti di Stato dei freni alla sua libertà discrezionale. La “politica industriale”, ancor più spesso invocata sotto i colpi del Covid, non è concepita come quadro incentivante di uno Stato regolatore, ma come strumento operativo di uno Stato che torna gestore, e detta a interi settori priorità e assetti societari, come avvenuto in Alitalia, Autostrade, e Ilva. Il sindacato vede nella concorrenza un ostacolo alla possibilità di accollare imprese decotte a grandi gruppi di pretesa strategicità. E vasta parte dei servizi di mercato vive grazie a privative, concessioni e tariffe pubbliche, e grazie a ostacoli all’ingresso di offerte di servizi di maggior taglia d’impresa, a minori costi e con maggior efficienza.
In questo abbraccio d’interessi si vanificano gli effetti comprovati di concorrenza e divieto ad aiuti di Stato. Cade l’incentivo a offrire prodotti e servizi a costi più bassi per i clienti, ad accrescere produttività e valore aggiunto. E a impedire l’offerta di servizi a costi minori di quelli necessari a realizzarli, come capita nelle gare di appalto e subappalto al maggior ribasso, in cui si insinuano imprese che riciclano capitali criminali. Dal 2009, quando divenne obbligo annuale, abbiamo avuto una sola legge sulla concorrenza. Che rimase in Parlamento dal 2015 al 2017, alla fine stravolta e disattesa.
Le eccezioni per il Covid
Si dirà: anche Bruxelles nel Covid ha sospeso le norme pro concorrenza e contro aiuti di Stato. Errore blu: non è vero. La Commissione a marzo ha adottato deroghe temporanee che valgono solo per sostegni diretti e garanzie pubbliche di liquidità alle imprese, garanzie alle banche se tradotti in aiuti ai loro clienti e non alle banche stesse, e garanzie a tempo per l’export. Fine. Non rientrano affatto in tali deroghe il prestito ponte per anni accresciuto ad Alitalia, né le misure anticoncorrenza con cui è stata rinazionalizzata – applicare ai concorrenti gli stessi costi e contratti di Alitalia – né la pretesa che la nuova Alitalia pubblica sia discontinua rispetto alla commissariata. La persistente tutela Ue alla libertà delle imprese è confermata dalla pronunzia della Corte di Giustizia a favore di Vivendi, che aveva impugnato le norme della legge Gasparri e del Testo unico dei servizi audiovisivi e radiofonici, norme nate 16 anni fa per “contenere” l’espansione di Mediaset negli incroci multimediali, e poi da questa usate contro la tentata scalata di Vivendi. I francesi si vedono restituito il pieno diritto di voto per quasi il 30% del capitale di Mediaset pur essendo al 23,9% in Tim, e si riapre così l’intera partita delle compartecipazioni tra telco e produttori di contenuti. Rimettendo anche in forse la “rete unica” che il governo Conte credeva di aver dirigisticamente instradato con l’accordo tra Tim e Cdp.
È lunghissima la sfilza di deroghe alla concorrenza adottate dal governo Conte nel Milleproroghe e nei successivi decreti: rinvii delle liberalizzazioni del mercato tutelato elettrico e del gas, ostacoli a società tra professionisti, proroghe degli obblighi di esternalizzazione per lavori affidati senza gara, nonché delle concessioni portuali, aeroportuali e degli ambulanti, e balneari con tanto di condono per chi non pagava gli esiguissimi i canoni. Deroghe per la concentrazione delle banche commissariate, nonché per trasporti, sanità e servizi di consegna.

La condanna europea
L’Europa per 20 anni intimò all’Italia di smontare la golden share invasiva disposta quando si privatizzava. Col governo Monti fu sostituita dal golden power, limitato però alla facoltà dello Stato di impedire ingressi di imprese extra Ue nei soli settori della difesa e sicurezza. Ma dal 2017 e con Conte, il golden power si è infinitamente esteso: trasporti, banche, infrastrutture, finanza, tutti i “settori ad alta intensità tecnologica”. Anche contro imprese europee: “basta stranieri di qualunque tipo”. Tranne smentirsi. Nel 2017 il ministro Carlo Calenda, insieme ai franco-tedeschi, chiese a Bruxelles un giro di vite su investimenti extra Ue da Paesi che non ci concedono reciprocità, in primis dalla Cina. La Commissione accolse la proposta. Nacque un nuovo regolamento a inizio 2019: ma l’Italia, che l’aveva proposto, si astenne. Con Conte l’intenzione non era più chiedere reciprocità alla Cina ma spalancarle le porte, con la Belt and Road Initiative.

Francia e Germania
Dal 2018 Francia e Germania, piccate per il no comunitario alla conglomerata Alstom-Siemens, bombardano Bruxelles chiedendo di riscrivere la politica Ue su divieti e bilanciamenti delle concentrazioni. Per far nascere “campioni europei”, figli della fusione di “campioni nazionali” franco-tedeschi. L’Italia si è accodata. Ma attenti. La Francia vuole i campioni europei quando le fanno comodo. Altrimenti dice sempre no. Si è visto quando pilotò la fusione tra Suez e Gaz de France nel 2006, per impedire a Enel l’Opa con cui voleva Electrabel, controllata di Suez in Belgio. O quando nel 2017 si oppose all’acquisizione di Fincantieri dei cantieri Stx, e tanto fece il governo Valls che alla fine Fincantieri ha dovuto accettare di averne solo il 50%, con l’1% decisivo per il controllo solo in prestito condizionato.
E dire che proprio un brillante economista francese in cattedra alla New York University, Thomas Philippon, in un suo bel libro dell’anno scorso – “La grande retromarcia, come l’America ha rinunciato al libero mercato” – spiega che è grazie alle norme pro concorrenza e antitrust che l’Europa è cresciuta negli ultimi anni pre Covid quasi tenendo il passo degli Usa. L’Italia no, perché la concorrenza non le è mai piaciuta. Ma fatto sta che quel libro non piace ormai a quasi nessuno dei politici europei.