la Repubblica, 7 settembre 2020
I numeri sulla startup italiane
Le startup italiane crescono in numero, ma non riescono a fare il salto di qualità. Gli investimenti nelle società innovative non si arrestano neppure con il Covid, ma restano briciole rispetto ai competitor europei. Nonostante qualche segnale di dinamismo e i milioni del governo, il sistema dell’innovazione rischia di impantanarsi a metà del guado tra le belle speranze e il diventare un asse portante della nostra politica industriale. Le startup censite nel registro del Mise sfioravano quota 11.500 a fine giugno, dalle 10.900 del 2019, nonostante la paralisi causa pandemia. Secondo EY, gli investimenti sulle società innovative sono stati di 700 milioni nel 2019, dai 510 tracciati l’anno prima nel report sul Venture capital di P101, e anche nel primo semestre 2020 hanno tenuto a 260 milioni. Piano con gli entusiasmi, suggeriscono gli addetti ai lavori: troppo grande il gap con il resto d’Europa per credere di esser diventati un Eldorado delle idee in via di sviluppo. Massimiliano Vercellotti, startup leader di EY, sciorina i dati: «Siamo lontani da Regno Unito (oltre 11 miliardi di investimenti), Germania (5,8), Francia (4,7), ma anche Spagna (1,3) e Svizzera (1,7)».
Per capire perché i 65 mila lavoratori di questo ecosistema sono ancora dei nani al cospetto di giganti, una chiave è indagare proprio il ritardo negli investimenti. «Da noi si tende a privilegiare asset stabili – ragiona Francesco Cerruti, direttore generale di VC Hub Italia – Soggetti istituzionali come fondi pensione e assicurazioni sono ancora assenti. Proliferano invece investitori non professionali che disperdono il potenziale di sostegno ai progetti realmente competitivi».
Il Venture capital rimane la porta d’accesso privilegiata ai capitali interessati in startup. Ma rischia di prender le forme di un piccolo mondo antico: «Il sistema è ancora chiuso, quasi tutti si conoscono e le stesse startup finiscono per essere oggetto di co-investimento da parte dei soliti soggetti», spiega Vercellotti. Difficile, così, stimolare concorrenza e salti di qualità. «E non è semplice identificare progetti industriali e team di valore», aggiunge l’esperto.
Anche le famose fabbriche di talenti faticano a sfornare materiale da plasmare. Un ruolo cruciale lo dovrebbero giocare incubatori e acceleratori. Sono 197 in tutta Italia, secondo il Politecnico di Torino. Sei su dieci di natura privata, il resto pubblici o misti. Ventisette quelli universitari, tra cui spicca il Poli-Hub di Milano.
Come funziona la forgiatura di talenti? «Esistono due fasi – spiega il presidente del PoliHub, Andrea Sianesi –. Prima lo scouting delle idee, quando incontriamo universitari con tre slide in Power Point e qualcosa per la testa. Si mettono in competizione e i vincitori entrano nella fase di incubazione: forniamo le competenze per fare crescere i loro progetti». Un’alternativa può essere la sfida nelle Start Cup regionali, che danno accesso al Premio Nazionale dell’Innovazione: una Champions League delle startup. Funziona? Il giudizio si ripete: «Stiamo maturando, ma a confronto con il resto d’Europa siamo in ritardo», dice Cerruti. Per Sianesi quel che manca è «l’anello di congiunzione: finanziamenti che accompagnino queste idee a diventare imprese».
Alcuni imprenditori sono riusciti a imporre la propria idea sul mercato, saltando questa trafila: esempi rari. Mirko Lalli è il fondatore The Data Appeal Company: monitora quasi 300 milioni di contenuti ogni giorno. Commenti, feedback e recensioni diventano occasioni di business: «Una grande pay tv voleva conoscere dove si concentravano le lamentele di bar che non trasmettevano le partite, così da indirizzare meglio le proposte di abbonamento». Un’attività, nata per il settore turistico, che fin da subito ha garantito buoni volumi di fatturato. «È stata la nostra fortuna. Oggi le startup rimandano troppo il confronto con il mercato».
In un sistema che molte volte s’inceppa, alla riga degli assenti si sono finora iscritte le grandi aziende. Si chiama Corporate Venture capital, è l’investimento in realtà ad alto potenziale effettuato da società di grandi dimensioni. Qualcosa si muove: nel 2019 le startup partecipate da aziende tradizionali sono aumentate del 14% sfiorando quota 6.300. Ci sono big dei rispettivi settori, come A2a nell’energia o Intesa Sanpaolo nella finanza, che si sono dotate di strutture volte a scovare potenziali crac. Poste Italiane ha scommesso 25 milioni sulle consegne di Milkman, Campari ha scommesso una cifra analoga per il 49% della cantina online di Tannico. Ma nel complesso ci si muove «in maniera disorganizzata», dice P101.
Non è una latitanza da poco. Senza compratori, aumenta la difficoltà del sistema italiano di esprimere startup in grado di fare il grande salto. Vercellotti lamenta il numero troppo esiguo di scale-up («quaranta o cinquanta, non di più») in grado di raggiungere la taglia tipica della nostra media impresa («150-200 dipendenti»), esser forti nei comparti che ci contraddistinguono («moda o tecnologia») e capaci di presidiare i mercati esteri. «Una startup fa il vero salto quando riesce a imporsi come player globale – rimarca Cerruti – Invece il sistema domestico è ancora troppo farraginoso».
Wash Out, milanese nata nel 2016, è una delle rare exit di successo del panorama delle aziende innovative italiane. Tradotto dal gergo del settore, il momento in cui una startup viene acquistata da una big o sceglie di quotarsi. «Ci siamo resi conto che il mondo dell’autolavaggio ero fermo agli anni Cinquanta», spiega Christian Padovan, ceo e uno dei tre fondatori. L’ispirazione è arrivata da quel che hanno visto Dubai: lavare le auto per strada e senza consumare una goccia d’acqua. In quattro anni la startup si è guadagnata l’interesse di investitori italiani e stranieri fino allo scorso febbraio, quando Telepass, già socio, ne ha rilevato il 70%. «La cessione di una startup è un momento cruciale perché i Venture capital possano esprimere rendimento e rimettere in circolo denari», spiega Vercellotti. Se gli interessati esteri all’innovazione italiana si contano sulle dita di una mano, però, si deve «alla frammentazione del capitale sociale delle aziende innovative. I fondi stranieri si spaventano nel vedere che dietro ci sono decine di investitori già presenti».
In effetti, se via via sta crescendo la taglia media degli investimenti, si elencano ancora pochi colpi grossi. L’app social fashion Depop e la fintech Soldo (62 e 61 milioni di dollari), il round da 44 milioni di euro dei co-working Talent Garden, quello da 35 milioni di dollari della fintech TrueLayer, per arrivare ai 20 milioni dell’e-commerce di auto Brumbrum. In cima alla graduatoria c’è però Casavo, capace di metter insieme, nel 2019, 82 milioni: 27 di equity e 55 di debito. Fondata nel settembre 2017 da Giorgio Tinacci, 29 anni in questi giorni, ha portato a 120 milioni il capitale raccolto, tra apporti diretti (30) e debiti (90). Con una forte impronta tecnologica, acquista immobili sul mercato a sconto, li ristruttura e rivende in tempi rapidi. Sarà l’eccezione che conferma la regola, ma fin dal principio Casavo ha raccolto l’interesse di un fondo tedesco (Picus Capital) mentre l’ultima iniezione da 20 milioni è arrivata dalla Silicon Valley. «È importante selezionare gli investitori per la rete di competenze che possono apportare: non vederli solo come finanziatori, ma soci strategici», la ricetta di Tinacci.
Il giovane imprenditore chiede che l’innovazione sia «al centro della politica industriale del Paese». Il decreto Rilancio fa passi avanti in tal senso. Affianca gli investitori rilanciando il capitale che questi stanziano sulle Pmi innovative (è in arrivo il decreto attuativo del Mise per il fondo da 200 milioni di sostegno al Venture capital), rafforza le detrazioni fiscali, vara un fondo da mezzo miliardo per il trasferimento tecnologico. Parallelamente il piano industriale di Cdp Venture è entrato a regime con 1 miliardo di fondi in dotazione alle sue Sgr. Una vera potenza di fuoco. Siamo di fronte a un cambio di paradigma? «Questo attivismo pubblico dovrebbe essere una garanzia per gli investitori, anche stranieri, che guardano all’Italia», incoraggia Cerruti.
Il mondo dell’innovazione resta dunque in gran parte ancora da plasmare. Un’indagine Cerved dice che ci sarebbero oltre 60 mila società simili a quelle bollinate dal Mise, per oltre 107 miliardi di fatturato, contro i soli 4,5 cumulati da quelle registrate.
Un esercito di startup «sommerse» che aspetta investitori a braccia aperte. Con l’accelerazione digitale scaturita dalla pandemia, l’impressione è che se non si prenderà questo treno – sfruttando i denari in arrivo con il Recovery Fund per il trasferimento tecnologico, la transizione energetica e la sostenibilità ambientale – rischieremo di vedere sempre più founder italiani andare a seminare le loro idee all’estero, in terreni più fertili.