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 2020  settembre 07 Lunedì calendario

Ritratto di Woody Allen

L’avevo incontrato di persona poche volte, sempre per interviste: Woody Allen era stato impeccabile, brillante e anche gentile, ma ero andato via con l’impressione che si stesse sottoponendo a un rito obbligatorio e avrebbe preferito trovarsi in qualunque altro posto, con amici fidati o magari a suonare il clarinetto. Un impercettibile senso di disagio che finiva per diventare anche mio. Finché un giorno ho avuto modo di parlargli a lungo e l’ho trovato assolutamente disteso: era venuto a omaggiare l’amico Carlo Di Palma, scomparso da poco, in occasione di una retrospettiva al Guggenheim sui grandi direttori della fotografia e il fatto che fossi io il curatore faceva di me una persona di cui potesse fidarsi.
Eravamo nell’aprile 2001, cinque mesi prima dell’11 settembre e otto anni dopo che aveva abbandonato Mia Farrow per Soon Yi, la ragazza che lei aveva adottato con André Previn. Su questa vicenda non mi permetto di dire nulla, salvo che lei e Allen sono ancora insieme dopo 28 anni, ma non voglio tirarmi indietro sull’altra vicenda, più grave e scandalosa: Allen è stata accusato dalla Farrow di molestie sessuali sulla figlia Dylan, allora una bambina di 10 anni. Un tribunale lo ha scagionato ben due volte da questa imputazione infamante e nella seconda occasione il giudice ha redarguito la Farrow di plagiare i figli contro l’ex compagno. Se vogliamo dare valore ai verdetti, Allen è innocente e sono tra coloro che trovano gravissimo che sia impossibilitato a dirigere film e a scrivere libri. A seguito della campagna del figlio Satchel – che la madre ha ribattezzato Ronan, sostenendo che era stato concepito con Frank Sinatra – gli sono stati rescissi i contratti con Amazon e con Hachette.
Allen è oggi un paria nel mondo dello spettacolo e della cultura americani e i toni di chi lo accusa sono violentissimi: quando è uscito il suo memoir A proposito di niente una giornalista del Washington Post ha scritto che l’unica utilizzazione possibile del libro era come «carta igienica». Molti interpreti dei suoi film hanno preso le distanze e Timothée Chalamet ha devoluto il proprio compenso a istituzioni che combattono gli abusi sessuali: aveva però esultato quando era stato scritturato dal regista nel 2017, non ignorando quello di cui era stato accusato 25 anni prima. Eppure l’Academy aveva voluto proprio lui per celebrare New York nella prima edizione successiva all’11 settembre e quando apparve in scena fu accolto da un’interminabile standing ovation.
È questo il clima che respira Allen, anche nei salotti che prima lo idolatravano, a dispetto da quattro Oscar vinti, molti film meravigliosi, libri esilaranti e battute geniali. Ed era questo il motivo per cui aveva nei miei confronti, e nei confronti di tutti, un atteggiamento di cautela, perfino di paura, che andava ad aggiungersi a una divorante timidezza precedente agli scandali. Per comprenderne l’intimità è necessario ripercorrere alcune tappe della sua esistenza, che lo vedono nascere 84 anni fa a Forest Hills, una zona di Queens abitata quasi esclusivamente da media borghesia ebraica.
Allan Stewart Konisberg, questo il vero nome, ha iniziato la carriera scrivendo testi per Sid Caesar e Mel Brooks, esibendosi parallelamente con stand up comedies, nelle quali riproponeva il personaggio dello schlemiel, l’ebreo goffo e imbranato, e conquistava il pubblico con battute straordinarie utilizzate in seguito anche nei film, tipo «Ogni volta che ascolto Wagner mi viene voglia di conquistare la Polonia». È diventato una star internazionale con commedie esilaranti come Prendi i soldi e scappa e Bananas, ma ha rivelato una personalità d’autore con classici quali Manhattan e Io e Annie e quindi ha spiazzato i fan con Interiors, rivelando i due poli ispiratori della sua poetica in Ingmar Bergman e Federico Fellini.
Fin quando ha potuto ha girato un film all’anno, con una metodicità nevrotica. Le sue pellicole sono tasselli di un unico grande mosaico, con alcuni lavori magnifici e altri meno riusciti, ma la vista d’insieme fa di lui un grande del cinema. I capolavori sono concentrati negli Anni 80 (Zelig, Broadway Danny Rose, La rosa purpurea del Cairo e Crimini e misfatti), ma in seguito non sono mancati momenti di eccellenza, come dimostrano Mariti e mogli, Pallottole su Broadway, Harry a pezzi e Blue Jasmine.
Con l’eccezione della sua New York, non è mai stato molto amato in America, a differenza di quanto avviene in Europa, dove è tuttora venerato. Lui ricambia l’amore anche nei gusti cinematografici: nel suo ultimo film Rifkin’s Festival, girato grazie a finanziamenti italiani e spagnoli, si immagina all’interno di 8½, L’angelo sterminatore, Il settimo sigillo e alcuni film della Nouvelle Vague. Ha sposato Soon Yi a Venezia, città che ama profondamente, e prima di lei ha avuto altre due mogli, Helen Rosen e Louise Lasser, e due compagne: Diane Keaton e Mia Farrow. Se ti capita di superare le sue difese ti racconta l’amore per le champagne comedies, con protagonisti ricchi ed eleganti: un sogno a occhi aperti smentito dalla dolorosa realtà quotidiana, come accade nella Rosa purpurea del Cairo. Lo stesso si può dire di New York, idolatrata sino all’irrealtà: è lui stesso ad ammetterlo nell’incipit di Manhattan.
Frequenta solo uno sparuto gruppo di amici, che gli sono rimasti fedeli anche nel momento più difficile, e rifugge il mondo intellettuale, di cui con superficialità è ritenuto parte. Pessimi i rapporti con Philip Roth, del quale era coetaneo: avevano troppi elementi in comune, a cominciare dal rapporto conflittuale con la tradizione ebraica, il simile retroterra sociale, la negazione di ogni trascendenza, il pessimismo cosmico contrastato dall’umorismo, la battuta geniale, la diffidenza per i salotti, e infine – elemento non trascurabile – il rapporto intimo con Mia Farrow. Erano insomma gli artisti ebrei più celebri e ammirati del mondo e ognuno riteneva che l’altro non meritasse tale riconoscimento. In un’intervista mi citò un proverbio yiddish imparato in gioventù: «Gli uomini fanno piani e Dio ride», ma professa il suo ateismo e il rapporto con un mondo tutto materiale è riassunto da battute come «Dio non esiste, e provate a trovare un idraulico nei weekend» o «La vita non imita l’arte, ma la cattiva televisione».
Incontrandolo, hai l’impressione che non abbia mai abbandonato l’illusione di poter vivere in una champagne comedy: nel finale di Manhattan elenca le cose per cui vale la pena vivere, a cominciare da Groucho Marx e le ninfee di Monet. È una fuga continua, di cui lui stesso è consapevole, al punto da esorcizzarla in altre battute fulminanti: «Non conosco la domanda, ma il sesso è certamente la risposta». Chi ha modo di frequentarlo è testimone di gesti di grande generosità e sa che dietro il suo pessimismo si nasconde un anelito di serenità o forse qualcosa che spieghi il mistero dell’esistenza: poche battute sono illuminanti quanto quella recitata nel finale di Io e Annie: «La vita è piena di dolore, solitudine e sofferenza, ma è sempre troppo breve».