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 2020  settembre 07 Lunedì calendario

Biografia di Lucullo, il generale tradito dall’equivoco

È stato uno degli uomini più potenti di Roma. Un politico che guardava con disdegno i suoi più giovani rivali Pompeo e Cesare. Un comandante che aveva condotto le legioni e le flotte dell’Urbe a grandi vittorie sui fronti del Mar Nero e dell’Eufrate. Un proconsole che aveva retto con saggezza e rigore le province orientali. Eppure è passato alla storia come un debosciato. Anzi, come il gaudente per antonomasia.
L’aggettivo «luculliano» è entrato nel linguaggio comune per designare tutto ciò che è lussuoso e raffinato, in specie un banchetto in cui ci si abbandona agli stravizi. Certo, quegli stravizi Lucio Licinio Lucullo se li è concessi davvero. Ma solo nella sua seconda vita. Quando non era più comandante militare, console e governatore di province. Quando, disilluso dalla politica, viveva ritirato nelle sue ville. Lasciando a Cesare e Pompeo la fatica di contendersi il dominio sul mondo, mentre lui si occupava del miglior modo di cucinare il pesce.
«Si può leggere la vita di Lucullo come una commedia antica: nella prima parte si trovano eventi politici e comandi militari; nella seconda sbornie, banchetti che sono quasi orge dionisiache, fiaccolate e ogni sorta di divertimenti». Così scriveva Plutarco nelle sue Vite Parallele. Ma, come notava lo storico Arthur Keaveney, nella vicenda di Lucullo si legge anche il tramonto della Repubblica romana: «Il suo fallimento è il fallimento di un’intera classe dirigente».
Nato nel 118 a. C., educato allo studio dei classici greci, elegante e di bell’aspetto, Lucullo sembrava predestinato al successo. Non ancora trentenne militò come tribuno agli ordini di Silla: il dittatore lo amava a tal punto che, nel testamento, lo nominò tutore di suo figlio. Nel 74 a. C. fu eletto console. Subito dopo iniziò a guerreggiare sui confini orientali. Sfidò Mitridate del Ponto e Tigrane d’Armenia, tenendoli sotto scacco. Sconfinò addirittura con le sue legioni nell’impero dei Parti, umiliando i più formidabili nemici di Roma. Il suo governo in Asia è ricordato come onesto e illuminato: una manna inattesa per i sudditi delle province, abituati a essere maltrattati e derubati dai proconsoli.
A quel punto era uno degli uomini più autorevoli di Roma. Ma qualcosa andò storto. Sembra che, in un’epoca dominata da demagoghi come Pompeo e Cesare, Lucullo, con la sua aristocratica signorilità, non riuscisse a rendersi simpatico alle truppe e al popolo. Scrive Plutarco: «Non sapeva accattivarsi la simpatia della massa dei soldati e giudicava disonorevole e riduttiva della sua autorità ogni concessione fatta per compiacere ai subalterni. Ma la cosa più grave fu che non seppe mantenersi in armonia neppure coi potenti e con quelli del suo stesso rango: disprezzava tutti e nessuno riteneva degno di considerazione al suo confronto».
Le sue legioni iniziarono così a essere sempre più insubordinate. E i suoi nemici, primo fra tutti Pompeo, cercarono di distruggerne in ogni modo la reputazione e la carriera, trascinandolo anche in tribunale, con accuse a quanto pare pretestuose. Anche nella vita privata, intanto, le cose non andavano bene. In prime nozze Lucullo aveva sposato Clodia, sorella del turbolento tribuno della plebe Clodio: la stessa donna che, secondo i più, Catullo ha immortalato nel suo canzoniere con il nome di Lesbia. Non fu un matrimonio felice. Clodia, scrive Plutarco, era «licenziosa e corrotta». Per di più, si narrava avesse rapporti incestuosi con il fratello. Lucullo la ripudiò per sposare Servilia, nipote di Catone Uticense. Ma anche stavolta il matrimonio fu un disastro: a parte l’incesto, Servilia pare non fosse molto diversa da Clodia.
Sta di fatto che, a un certo punto, nella vita di Lucullo qualcosa sembra rompersi. Si ritira dalla politica e comincia a dedicarsi solo agli ozi e ai banchetti. Le pagine che Plutarco dedica agli stravizi di Lucullo sono poche, ma hanno colpito l’immaginazione più di quelle dedicate alle sue battaglie. Possedeva ville in riva al mare, nel Golfo di Napoli, e a Tuscolo, nel Lazio, dove invitava spesso Cicerone, che gli rimase sempre amico.
I giardini e i saloni delle sue dimore impressionavano i visitatori. Lo sfarzo dei suoi banchetti divenne leggendario. Sulle tavole apparecchiate con stoffe di porpora, tra coppe tempestate di pietre preziose e balletti di mimi, sfilavano i cibi più raffinati. Eppure, anche durante questa sua seconda vita, Lucullo non fu un semplice gaudente. Continuava a studiare, si dedicava alla filosofia, intratteneva gli eruditi greci di passaggio. Alcuni di loro, dopo giorni di banchetti a sbafo, protestarono dicendo che si sentivano in colpa ad approfittare di un’ospitalità tanto generosa. Ma Lucullo, secondo Plutarco, rispose: «Signori greci, i miei banchetti li faccio anche per voi. Ma li faccio soprattutto per Lucullo».
Non vide la fine della Repubblica. Morì a Napoli nel 56 a. C. I suoi vecchi amici e rivali se ne andranno tutti, di lì a poco, nei modi più cruenti: Pompeo ammazzato da un eunuco in Egitto, Catone suicida con una spada nel ventre, Cesare caduto sotto i pugnali dei congiurati, Cicerone decapitato dagli sgherri dei triumviri. A Lucullo, invece, fu negata una morte tragica e sublime. Si narrava fosse stato ucciso da un filtro d’amore, somministratogli da un liberto che voleva conquistarsi il suo affetto ma aveva esagerato con le dosi. Una fine ingloriosa per chi aveva vissuto da protagonista le glorie di Roma. L’aneddoto forse è inventato. Ma, a pensarci bene, un uomo come Lucullo non poteva che morire così.