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 2020  settembre 07 Lunedì calendario

Intervista a Beppe Savoldi

Luglio 1975: nell’Italia che tira la cinghia, con le bollette che aumentano e i salari sempre fermi, c’è una notizia che incendia il Paese. Beppe Savoldi, di professione centravanti, passa dal Bologna al Napoli per 2 miliardi di lire. Per la precisione: un miliardo e quattrocento milioni in contanti più il cartellino di Clerici e la metà di quello di Rampanti. Le casse del Bologna, vuote prima della cessione, riprendono ossigeno, ma i tifosi rossoblù s’indignano e strappano gli abbonamenti. A Napoli aspettano Savoldi come il messia: dopo il secondo posto dietro alla Juve, ora lo scudetto non è più un sogno. A festeggiarlo al suo arrivo anche i netturbini che, in sciopero da oltre un mese perché chiedono un aumento di stipendio, paralizzano la città. Proprio su questo aspetto della vicenda si concentrano i commenti dei giornali che soffiano sul fuoco: possibile che in un Paese dove non ci sono i soldi da dare agli spazzini ci siano due miliardi per pagare un calciatore?
Savoldi, ci racconta come visse quei giorni?
«Ammetto di essere stato un po’ agitato. Però anche felice: mi aveva cercato una grande squadra che puntava allo scudetto e aveva sborsato tanti soldi per me, dunque ero pure orgoglioso. Quel trasferimento significava che ero bravo».
Dove si trovava mentre Bologna e Napoli parlavano dell’affare che la riguardava?
«A Riccione, spiaggia Savioli. Ero con un gruppo di amici. Mi sfottevano, mi facevano battute. Io avevo già parlato con Franco Janich, il direttore sportivo del Napoli che era stato anche mio compagno di squadra. Era venuto a casa mia e mi aveva chiesto se mi andava di trasferirmi al Napoli. Gli avevo risposto subito di sì. Allora mi fece l’offerta dello stipendio: 70 milioni. Va bene, dissi. E mia moglie, quando lo seppe, mi rimproverò: potevi almeno chiedere qualcosa di più. Ma a me dei soldi non importava nulla, contava poter andare in una squadra che puntava allo scudetto».
Non fu una trattativa semplice, però. Spuntò anche una pistola…
«Il presidente del Bologna Luciano Conti aveva deciso di cedermi per sistemare i bilanci. Ferlaino gli propose l’acquisto e lui accettò. Firmò una lettera d’intenti compilata in fretta e furia sul frontespizio di un quotidiano. In quel foglio c’era scritto che la cessione gli stava bene, ma si riservava di poterci pensare se si fossero verificate determinate condizioni. Ferlaino prese il documento, lo conservò e poi, quando Conti gli comunicò che ci aveva ripensato perché i tifosi erano in agitazione, lui spedì tutto alla Federcalcio».
E Conti, in un faccia a faccia piuttosto turbolento con Ferlaino, gli mostrò la pistola che teneva nella fondina agganciata alla cintura dei pantaloni.
«Io non c’ero, ma mi dissero che le cose andarono proprio così. Io, per Bologna e per il Bologna, ero un simbolo: sette anni in maglia rossoblù. Allo stadio la gente non cantava più: Bologna! Bologna! Gridava soltanto: Beppe-gol! Beppe-gol!… Quando i tifosi andarono sotto la villa di Conti, lui si spaventò e fece retromarcia. E provò in tutti i modi a trattenermi, ma ormai aveva firmato quel documento che lo inchiodava».
La sua cessione era stata decisa tempo prima, però. Lei doveva andare alla Juve, vero?
«Proprio così. Il presidente Conti era il responsabile del circuito di Imola, spesso incontrava l’Avvocato Agnelli, grande appassionato della Ferrari. In uno di questi colloqui parlarono della mia cessione e si accordarono. Qualche giorno più tardi telefonò a casa mia il dottor La Neve, che era il medico sociale della Juve. Voleva che andassi a Torino per le visite di rito».
E poi che cosa successe?
«Improvvisamente tutto saltò. A dirmi la verità fu Pietro Anastasi, che era un mio amico. La Juventus voleva cederlo per fare spazio a me, ma i tifosi bianconeri si ribellarono: Anastasi era un idolo della curva e così l’Avvocato si convinse a tenere Pietruzzo e a non acquistare me».
La Juve vendette Anastasi l’anno successivo all’Inter in cambio di Boninsegna, ma intanto, in quell’estate del 1975, il Bologna aveva bisogno di soldi e dunque lei era destinato a essere sacrificato.
«Il Milan e l’Inter non si fecero avanti…».
Si disse che l’Avvocato Agnelli avesse posto il veto a Conti: vendi pure Savoldi, ma non a Inter o Milan.
«Ho sentito anch’io queste voci, non so se ci sia del vero. Di certo ci fu un tentativo della Lazio per acquistarmi, ma il più deciso di tutti fu Ferlaino e difatti io finii al Napoli».
Se fosse andato alla Juve, magari sarebbe cambiata anche la sua carriera in Nazionale. Che ne pensa?
«Sicuramente sì. Io ero nel giro azzurro, ma a quel tempo c’erano i blocchi: l’Italia era formata per metà da quelli della Juve e per metà da quelli del Toro. Chiaro che se fossi diventato bianconero avrei avuto qualche possibilità in più, forse avrei fatto coppia con Bettega anche in azzurro, chissà…».
Resta il fatto che a Bologna si sfiorò l’insurrezione.
«Capisco la rabbia dei tifosi. Avevano perso fiducia nella società. Con me nessuno ce l’aveva, sapevano bene come andavano le cose nel mondo del calcio. Il cartellino era di proprietà della società, il giocatore non poteva fare nulla: se veniva ceduto, doveva accettare. Io, di quei famosi due miliardi non vidi una lira, finirono tutti nella tasche del presidente Conti».