La Lettura, 6 settembre 2020
L’esuberanza dei giovani vs la resistenza degli anziani
In marzo, nel pieno (vuoto) del confinamento, «la Lettura» aveva deciso di sentire l’umore di diversi intellettuali (un sociologo, uno psichiatra, una psicoanalista, un neuroscienziato, un critico letterario esperto di Leopardi). Siamo tornati da alcuni di loro per capire cos’è cambiato dopo sei mesi. Coinvolgendo anche una protagonista della poesia contemporanea e un filosofo, studioso del Medioevo e teorico della metafisica vegetale.
SALVATORE NATOLI — Nella fase del lockdown il primo sentimento, che tutto sommato ne ha determinato la riuscita, è stata la paura. Quindi, anche grazie a una notevole riserva di risorse, è prevalso lo spirito di responsabilità e il meccanismo difensivo per sé stessi e per gli altri: la paura è di per sé paralizzante e non ha bisogno di elementi coattivi. Poi si è entrati nella fase problematica dell’attesa impaziente, ha cominciato a svilupparsi la grande incertezza sul futuro: il lavoro, l’economia, le scuole... si aprono o non si aprono... e se si aprono, come si aprono? E il virus torna o non torna? La paura non è cessata ma la gente ha cominciato a capire che può essere gestita, addomesticata, anche perché la medicina ha avuto qualche successo terapeutico. Si è aggiunta poi la fase delle richieste di protezione da parte di vari settori, con le caratteristiche proprie dell’emergenza: se dobbiamo stare fermi, come facciamo a campare? Per quel che ha potuto, la politica ha dato risposte di tipo protettivo, creando ovvie scontentezze sulle quantità e sui tempi, e sviluppando forme di sottile nevrosi e di confusione. Nelle ultime settimane l’attesa si è fatta ancora più sinistra: pareva che il contagio si allentasse anche per merito del lockdown e immediatamente la gente è ripartita, è uscita, alcuni con cautela, altri con spregiudicatezza. Invece...
In Italia abbiamo reagito diversamente che altrove?
EUGENIO BORGNA — Dal mio punto di vista, vorrei considerare la reazione italiana muovendo dalla risposta della sanità dinanzi a un evento così sconvolgente. Mentre la territorializzazione della medicina ha consentito, in particolare alla Germania e alla Francia, di reagire con più immediatezza, in Italia l’orientamento dominante è stato quello incentrato sugli ospedali. La risposta migliore, da noi, è stata invece quella della psichiatria, grazie alla rivoluzione basagliana: leggendo alcune riviste tedesche, si capisce che le conseguenze in Germania sono state molto più gravi. Non oso immaginare cosa sarebbe avvenuto in Italia se ci fossero stati ancora ospedali psichiatrici come quello di Milano e di Roma, con migliaia di pazienti murati vivi.
SALVATORE NATOLI — Di fatto l’Europa ha mimato l’Italia, si è allineata persino la Gran Bretagna quando le cose si sono messe male... In Brasile e negli Stati Uniti l’ideologia di fondo è stata quella della selezione naturale: l’attenzione alle vite che si perdono e la protezione è stata secondaria rispetto ai processi economici, pensando che le cose si sarebbero aggiustate da sole. Ma l’esito è stato fallimentare anche sul piano politico. L’altra cosa importante è che lo sanno anche i bambini che c’è stata una selezione sulla base delle diseguaglianze: anche da noi il lockdown l’hanno patito molto di più i poveri e il ceto medio impoverito, perché un conto è avere spazi ampi in cui vivere, altra cosa è abitare in piccoli appartamenti, dove le distanze sono minime. E se parliamo delle attività commerciali, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: il piccolo bar è andato in crisi, mentre chi aveva più risorse aveva anche più riserve... La differenza abissale, anche a livello di mortalità, è stata tra ricchi e poveri.
N on ne siamo ancora usciti, ma intanto qualcosa è mutato nei comportamenti e nella mentalità?
EMANUELE COCCIA — Credo, come per ogni pandemia, che i cambiamenti siano avvenuti su un piano inconscio e che ci vorranno anni per osservarne le conseguenze. Mi sembra che siano due le cose più toccate. Ci siamo trovati su scala planetaria, murati in casa, senza più accesso allo spazio pubblico. La città è da un giorno all’altro diventata fuori legge, spazio proibito. È naturale che l’opposizione tra città e casa, tra spazio pubblico e privato cambierà radicalmente nei prossimi decenni: la pandemia ha accelerato un processo già in corso. Un altro cambiamento profondo, associato anche al nuovo regime climatico, è la fine del pregiudizio teologico che vede il pianeta come qualcosa che sia naturalmente destinato ad accoglierci, una casa ospitale, fatta perché l’uomo possa vivere in via tendenzialmente eterna.
SIMONA ARGENTIERI — Per il mio metro di valutazione sei mesi non sono tanti, non bastano per individuare vere trasformazioni individuali e collettive. Trovo semmai conferma di quanto ho sostenuto a suo tempo: non si cambia così facilmente a fronte degli eventi della realtà esterna e non ho mai dato credito alla profezia che il dramma della pandemia ci avrebbe resi più responsabili e più buoni. Una solida struttura della personalità non si costruisce nell’emergenza, ma in tempo di pace. Tanto più che siamo arrivati impreparati, condizionati dai tratti tipici della nostra cultura: l’intolleranza alla frustrazione, l’insofferenza di fronte a ogni limite posto ai nostri desideri (vissuti come «diritti»); il piccolo egoismo quotidiano; il narcisismo...
Che cosa ne è venuto fuori?
SIMONA ARGENTIERI — Credo che da ciò derivi l’attuale diffuso sentimento di delusione. La maggior parte di noi, durante la tregua estiva di minore diffusione del virus, si era illusa che il peggio fosse ormai alle spalle, che fossimo prossimi alla soluzione salvifica del vaccino. Poco conta, rispetto alla forza del desiderio, che più e più volte la scienza ci avesse messo in guardia. Nella immensa mole di informazioni circolanti, ciascuno tende a cogliere e a trattenere nella mente ciò che conferma i suoi convincimenti.
ANTONIO PRETE — Il confinamento, certo, ha intaccato le forme del vivere sociale, fondate sull’incontro, la relazione, la corporeità, come ha messo in questione riti e forme della compassione: pensiamo all’importanza della presenza dinanzi all’altro, della carezza, della tenerezza, insomma della prossimità, che è principio del riconoscimento dell’altro, e di sé attraverso l’altro, attraverso la presenza fisica dell’altro. Dinanzi a questo, occorre trovare di volta in volta un nuovo equilibrio, anche se difficile, tra la necessità di rispettare le libertà individuali e la necessità di provvedere alla salute pubblica. In ogni caso, un principio morale oggi è non rimuovere quel tragico che si è mostrato con il dolore di moltissimi e continua a mostrarsi in molte parti del mondo. Dallo sguardo su quel tragico dovrebbero muovere tutte le scelte e le analisi. Triste è vedere come nell’imperversare della tragedia nelle Americhe, in India e altrove, si sia attenuata la sensibilità per la sofferenza che è nel mondo, concentrando ciascuno l’attenzione al proprio Paese.
CHANDRA L. CANDIANI — In generale vedo il tentativo di ripetere quello che c’era prima, di fare ritorno alla cosiddetta normalità e di fingere che sia finito tutto. Non sento una riflessione seria sulla connessione tra la comparsa del virus e la situazione ambientale, la nostra responsabilità di un modo di vivere che ha ridotto la natura a un fondo da cui attingere eternamente e non un sistema vivente con cui collaborare, da custodire e proteggere. Non vedo nemmeno il desiderio di rendere la propria vita più quieta e rivolta a quello che conta o alla domanda di cosa sia quello che davvero conta. Vedo il mimo della vita di prima, la prepotenza di prima, l’ambizione, la falsa sicurezza, l’incuranza verso gli altri.
La forza delle abitudini ha finito o finirà per prevalere su ogni prospettiva, non tanto di rivoluzione ma di correzione di rotta?
ANTONIO PRETE — La tendenza che vedo affiorare è quella dell’oblio, dimenticare ciò che è successo: il senso della finitudine e del dolore che c’è nel mondo non viene elaborato. Questa pandemia potrebbe insegnare che non bisogna distrarsi, non bisogna allontanare lo sguardo dal dolore, perché ci porta sotto gli occhi la sofferenza. Anche manifestazioni sociali come la spensieratezza dei giovani, la ripresa dei costumi e della socialità precedente come se nulla fosse, la smania estiva di ritrovarsi nella folla, sono tutti fenomeni che segnalano la dominanza dell’oblio, soprattutto nei giovani: si sa che il giovane tende per ragioni di età a rimuovere, a vivere la propria vitalità e le proprie esperienze come sempre, senza l’ombra di quel che è accaduto. Si capisce il bisogno di un compenso generazionale alla solitudine sofferta durante il confinamento, ma il comportamento andrebbe comunque commisurato alla necessità di osservare le misure per evitare che venga abolito l’imperativo categorico kantiano. Il principio della responsabilità. Se si giustifica con il fatto generazionale, si rischia di arrivare a un’attenuazione di quel principio morale che consiste nel preoccuparsi anche degli altri.
SALVATORE NATOLI — Direi che l’eventuale cambiamento nei comportamenti dipende dalla formazione dei soggetti, che coinvolge, appunto, la responsabilità. C’è chi anche dopo il lockdown si è sentito ancora responsabile, altri erano desiderosi di una libera uscita specialmente nelle fasce giovanili, anche perché i giovani erano stati i meno colpiti. Un fenomeno importante è stata la sparizione, o meglio il ridimensionamento, degli anziani: è stata questa la grande perdita. Si è prodotta una frattura generazionale: da una parte i vecchi condannati, dall’altra i giovani. Adesso i giovani sono più colpiti perché non appena è scattato non dico il verde ma il giallo, i ragazzi, che sono vitalissimi portatori sani, si sono rovesciati in strada sentendosi liberi. Per fortuna alcuni si sono resi conto che la partita non era finita.
La libertà è un diritto a cui è difficile rinunciare.
SIMONA ARGENTIERI — A proposito dell’uso ambiguo della parola «libertà», penso con sgomento ai conflitti intorno alla chiusura delle discoteche, al «diritto» invocato di stare insieme da parte dei giovani. Ma qui, appunto, vengono a galla problemi sociologici e psicologici di ben più lunga data, quali la non compiuta tappa maturativa, secondo le parole di David Winnicott, della «capacità di stare solo», che non è la chiusura autistica in sé stessi, ma il momento prezioso in cui un bambino scopre di essere capace di stare per un po’ tranquillo a giocare per conto suo, senza aggrapparsi perpetuamente all’attenzione di qualcuno. Soltanto chi è capace di stare solo è poi in grado di intessere un vero rapporto con gli altri, vissuti come persone differenziate e non come sponda di rispecchiamento di sé. È però giusto ammettere che il confine tra diniego del pericolo e paura paranoica dei portatori del contagio, tra responsabilità e arroganza onnipotente, non è netto (giovani/vecchi, governanti/governati, destra/sinistra...). Piuttosto è instabile e fluttuante anche nell’interiorità psichica di uno stesso individuo.
Una sorpresa venuta da questo tempo inaspettato?
CHANDRA L. CANDIANI — Mi ha sorpreso il ritorno precipitoso a una socialità vuota. Ma vi ho letto la paura, la fragilità, il fare finta di niente di quando non si sa come fare per contenere lo smarrimento e trasformarlo in azione giusta. Il punto da cui guardo però è cambiato perché da quasi sette mesi vivo in campagna, in un piccolo paese del Piemonte. Qui non ci sono seconde case né turismo, la vita è rimasta quieta e ripetitiva, chiusa la bocciofila e anche il ristorante. Ci sono meno mascherine sulla faccia, ma poi le trovi buttate nel bosco. Le persone faticano a riprendere le loro attività, ma sembrano anche più abituate a soccombere e poi tirarsi di nuovo in piedi, a soffrire, a vivere di poco, ad agire per farcela.
EMANUELE COCCIA — Io ho osservato tutto da molto lontano perché non ero in Italia, ma mi è sembrata una reazione molto civile, al di là di qualche protesta o di qualche meschinità. In generale mi ha sorpreso la velocità con cui popoli interi hanno modificato da un giorno all’altro le proprie abitudini più profonde, corporee e mentali. È stata una dimostrazione del fatto che la nostra vita (indifferentemente dalla sua identità culturale) ha una plasticità che continuiamo a sottovalutare.
EUGENIO BORGNA — Quello che in fondo mi ha sorpreso è stata la rassegnazione con la quale è stato, più o meno consapevolmente, accolto l’obbligo della solitudine con un cambiamento radicale e anzi rivoluzionario di comportamenti. Non parlo di chi abbia o abbia avuto il privilegio di vivere in abitazioni agiate, ma di chi viva ad esempio in una di quelle sterminate periferie con abitazioni l’una vicina all’altra, senza nemmeno la possibilità di un qualche movimento nella giornata. Non ci sono stati segni di ribellione, e questo è stato, mi sembra, un indizio di educazione civile sorprendente e molto più vasto di quello che si potesse immaginare.
CHANDRA L. CANDIANI — Qui vicino c’è un lago, un giorno sono andata a nuotare con il mio compagno in una baia. Mentre eravamo in acqua sono arrivati alcuni turisti che hanno occupato quasi tutto lo spazio con le sdraio portate da casa, incollandole ai nostri asciugamani rimasti a terra. Nessuna distanza. Usciti dall’acqua, abbiamo deciso di asciugarci e andarcene, ma quel che mi ha stupito è che parlavano tra loro del virus e di quanto fosse pericoloso e di chissà cosa ci aspettava in autunno. Le loro parole erano completamente scisse dal loro comportamento. Lontana dal negazionismo e dal complottismo, credo solo nella consapevolezza.
Einstein diceva che la catastrofe dovrebbe essere un invito a ripensare i grandi principi del nostro stare al mondo. Visto in questa chiave, il Covid potrebbe diventare paradossalmente un’occasione perduta.
EMANUELE COCCIA — Uno dei primi insegnamenti che dovremmo trarre dall’esperienza della pandemia è che tutte le vite, umane e non umane, sono legate da un rapporto di continuità. La vita che ci anima è la stessa che anima qualsiasi altro vivente. È per questo che possiamo mangiare e vivere di ciò che mangiamo, ma è per questa stessa ragione che possiamo ammalarci e morire. La vita non appartiene a nessuna specie, ma circola liberamente da una specie all’altra. E che ogni vivente, anche il più piccolo, ha degli effetti vivificanti o assolutamente mortiferi, indipendentemente dalla sua dotazione anatomica. La vita è proprio questo, il fatto che ci sia una dismisura tra cause e conseguenze.
SALVATORE NATOLI — Secondo Hans Magnus Enzensberger, nel mondo sono diventate preziose le cose che una volta erano gratuite: la terra, l’aria, l’acqua... C’è un tasso elevatissimo di urbanizzazione dove è sparita la natura e al quale anche il mondo animale ha dovuto riadattarsi. Tutte cose che si sono accumulate in anni e anni e la cui soluzione richiederebbe tempi lunghi, ma non si vede un impegno serio in questa direzione neanche oggi. Eppure se non c’è una connessione diretta tra gli squilibri ambientali e le epidemie, c’è sì un rapporto indiretto, anche perché gli episodi sono ricorrenti: mucca pazza, aviaria, Sars... Di un ripensamento parlano tutti: anche le agende degli Stati prevedono una revisione degli assetti energetici. Ma nella pratica? Intanto sappiamo, per esempio, che Trump si è sottratto. E poi individualmente bisognerebbe cambiare stili di vita, una metamorfosi che non può avvenire dall’oggi al domani... Aristotele diceva che è più difficile la virtù che il vizio, perché il vizio procede per automatismi, la virtù ha bisogna di cooperazione e responsabilità. Mentre tutti dicono che niente sarà più come prima, il sentimento collettivo, finita la paura, è il desiderio di tornare più o meno a come prima...
Ci sono comunque interi settori in cui si produrranno accelerazioni inevitabili.
SALVATORE NATOLI — Certamente, uscirà trasformata l’organizzazione del lavoro e dei servizi, ma non sarà una rivoluzione perché tanti fenomeni erano già in atto prima, grazie alla tecnologia digitale. È diverso e più complesso il discorso che riguarda le relazioni umane. Per esempio, nell’insegnamento il contatto diretto resta fondamentale, non si può risolvere tutto con le lezioni da remoto. Nei processi formativi e di apprendimento la circolazione delle idee ha bisogno di relazioni personali e lo scambio delle esperienze si realizza solo in presenza: sono dinamiche ineliminabili almeno finché non interverranno i cyborg e le intelligenze artificiali.
EMANUELE COCCIA — Un’altra cosa su cui bisognerà riflettere è che le case sono spazi da ripensare e ridisegnare. Abbiamo dovuto passare mesi chiusi a casa ed è risultato evidente che in genere non sono spazi abitabili. Si è molto parlato dell’ingiustizia legata alla differenza di taglia degli appartamenti, della presenza o meno di giardini. Ma la verità è che se negli ultimi secoli c’è stata una riflessione incredibile sullo spazio urbano, che ha fatto delle metropoli in occidente luoghi di sperimentazione estrema da un punto di vista culturale, affettivo, artistico... gli spazi domestici sono per lo più calibrati su un modello di vita ottocentesco. Sono spazi intrinsecamente violenti, che non rispondono più ai nostri corpi. Tutto va ripensato, oltre il parallelepipedo. Ci sono architetti che hanno cominciato a lavorare in questo senso (penso a Andrés Jaque e ai suoi Ikea Disobedients) ma sono ancora troppo pochi. Dobbiamo ripensare la casa, aprire i suoi muri, renderli mobili...
Se non arriveremo a elaborare grandi progetti ideali, almeno intimamente ci ritroveremo un po’ trasformati dal trauma?
EUGENIO BORGNA — Un cambiamento di sensibilità e di coscienza c’è stato: indotto dall’eccezionalità degli avvenimenti e in particolare dalle ombre della malattia oscura e dall’imprevedibilità della morte. Ma temo che questi cambiamenti, forse inattesi e in ogni caso straordinari, siano limitati – non intendo generalizzare ovviamente – ai mesi che ci hanno visti con l’ombra della morte del Settimo sigillo di Bergman che incombeva su di noi. La fragilità, della quale parlavo a marzo, è riemersa nel suo significato profondo, cioè nel renderci consapevoli delle insicurezze e delle incertezze che fanno parte della vita, e che solo la coscienza del nostro essere caduchi riesce a contenere. Il mio timore però è che le nostre fragilità vengano rapidamente sommerse da comportamenti di vita slegati dal dubbio e sprofondati invece nelle certezze ideologiche. La fragilità è sembrata riemergere alleata alla speranza, sua sorella gemella. Forse la psichiatria ci rivela il valore nascosto di emozioni considerate come ferite, e che sono invece le tracce verso il cammino di una interiorità, che è la premessa per essere d’aiuto agli altri.
ANTONIO PRETE — La pandemia ha lanciato due avvertimenti. Ha messo allo scoperto il senso del limite che la nostra civiltà tende ad appannare o rimuovere: l’inatteso, l’imprevedibile, l’ignoto, possono in qualsiasi momento presentarsi come minaccia, irrompere sulla scena del mondo, sconvolgere ritmi e forme di una civiltà. La ginestra di Leopardi è anche per questo un canto che riguarda in profondità il nostro tempo. La pandemia ha inoltre mostrato come la perseguita distanza dalla natura, la manipolazione della natura, la rottura dell’equilibrio armonico con la natura, possono rendere l’uomo meno protetto, più esposto.
La lettura dei classici contribuisce ad acquisire questa consapevolezza?
ANTONIO PRETE — Dai tragici greci al romanzo moderno alla poesia si vede con chiarezza il senso della finitudine. Anche nelle narrazioni delle epidemie, da Tucidide a Boccaccio a Camus, emerge la presenza del dolore e la coscienza del limite in cui l’uomo è posto. Rileggendo La peste, mi ha colpito il grande equilibrio del dottor Rieux, che a contatto con il dolore e con la morte dimostra responsabilità, dedizione e compassione.
Tante storie simili, e anche drammatiche, di medici e infermieri sono state raccontate dalle cronache. Ian McEwan ha detto che tutto sommato il virus è stato una non inutile «lezione di immobilità e di resistenza».
CHANDRA L. CANDIANI — Mi sento grata a questo virus perché mi ha risvegliato, mi ha ricordato che la vita è pericolosa e sempre a rischio. Non solo altrove, ma qui, proprio nella nostra casa. E che sono legata ad altri, che contagio e sono contagiata. Mi ha fatto perdere il lavoro politico e interiore di insegnare meditazione agli adulti e poesia ai bambini. Mi ha fatto capire che «spirituale» significa per me «rivoluzionario», rivoluzionare le mie abitudini, i miei condizionamenti, l’ingessarsi delle opinioni che chiamiamo personalità. Mi ha fatto sentire che desidero insegnare solo a chi è disposto a una rivoluzione interiore. Mi ha insegnato che sono «abbandonabile», ho perso varie persone, non per morte fisica, ma per distanza interiore, e sono sopravvissuta e ho percepito il vertiginoso spazio della solitudine scelta per libertà dal noto e dal risaputo. Mi ha fatto crescere e invecchiare sia il corpo che l’anima. E sarà un grande lavoro accogliere la vecchiaia come fase preziosa e chi invecchia come specie protetta. Mi ha regalato il regno vegetale e animale a cui ora appartengo con nuova gioia dopo gli ultimi anni passati in città con un senso doloroso di isolamento etico e di ricerca di silenzio e quiete dove trovavo solo affaccendarsi e desiderio di conquista, di qualunque cosa si trattasse, anche di conquista «spirituale». Ma può esistere una cosa simile? Mi ha fatto percepire che ci sono tanti come me, nascosti e confusi, che lotteranno per non essere gli stessi di prima, messi a tacere e chiusi nell’angolo.
Quale immagine, tra le tante, conserveremo nella memoria futura?
CHANDRA L. CANDIANI — I morti partiti da soli, silenziosi e anonimi, sui camion militari. I guidatori di quei camion. Gli animali che nel bosco spuntavano perplessi non sentendo più i rumori del più pericoloso dei predatori.
ANTONIO PRETE — Le altre immagini in qualche modo hanno una spiegazione: il Papa da solo in Piazza San Pietro, gli infermieri prostrati dalla stanchezza... Ma le bare sui camion hanno mostrato il volto tragico della pandemia, l’impossibilità dell’esercizio della compassione. Al resto ci siamo abituati, a quelle immagini no.
EUGENIO BORGNA — Ciascuno di noi ha risonanze emozionali diverse dinanzi agli avvenimenti dolorosi e strazianti della vita: sulla scia delle nostre sensibilità e della nostra impressionabilità, delle nostre fragilità e delle nostre esperienze. La mia memoria sarà ferita per sempre dalle immagini, che scorrevano fredde e impersonali sugli schermi, della morte lacerata nella sua dignità e nella sua riservatezza, come quella delle prime settimane di pandemia. La morte si accompagna ogni giorno alla nostra vita in mille dolorose circostanze: la morte naturale, la morte causata dalle malattie, e dalla sventura, dalla violenza, e dal deserto del cuore; e ogni volta siamo chiamati a prenderne coscienza: sia pure nel dolore, nella rassegnazione, e nella preghiera. Ma la morte in quelle bare è stata una morte slabbrata e reificata, perduta in un atroce isolamento. Il silenzio della morte, la solitudine della morte, la sacralità della morte, nulla di tutto questo nelle immagini che continuavano a scorrere in televisione. Non so se sia stato giusto rendere così evidente nella sua insostenibile incandescenza quello che è avvenuto.
Adesso che cosa dobbiamo temere di più?
SIMONA ARGENTIERI — Il tempo che ci aspetta sarà il più difficile. Anche per quel che riguarda la ripresa del lavoro clinico di psicoanalisi e di psicoterapia, dovremo continuare a confrontarci con la provvisorietà e l’incertezza. Dovremo tollerare ancora il distanziamento, il saluto senza stretta di mano, le mascherine che ci privano della preziosa comunicazione delle espressioni facciali. Nella fase della clausura le regole erano più drastiche, più nette. Magari protestando e polemizzando, era chiaro a tutti cosa si dovesse fare o non fare. Ora bisognerà negoziare tra la prudenza e le necessità della vita sociale e lavorativa, ciascuno sarà responsabile di tante piccole scelte quotidiane. Quella «libertà», da taluni polemicamente invocata contro le restrizioni, può rivelarsi un gran peso. Insomma, passeremo dal momento dell’emergenza, che sempre porta con sé una carica energetica eccezionale, alla fatica antieroica di un tempo lungo e dilatato. In sintesi, credo che ora ci aspetti il compito più improbo: quello – secondo le parole di Wilfred Bion – di «apprendere dall’esperienza», cioè di non ripetere gli errori. Secondo la psicoanalisi, una sana «capacità di preoccuparsi» in modo realistico – nel senso di prendersi cura di sé e degli altri – è una funzione psichica importante. Altrimenti si oscilla tra incoscienza infantile e angoscia nevrotica inconcludente.
Un autore a cui può ricorrere un lettore di buona volontà per un consiglio e un aiuto?
EMANUELE COCCIA — Due classici. Lucrezio, il De rerum natura, il primo a provare a pensare e a descrivere la peste. E soprattutto le Metamorfosi di Ovidio. Viviamo un momento in cui non solo la specie umana e le sue infinite nazioni, ma tutto il pianeta sta attraversando una profonda metamorfosi, ecologica, climatica, politica, culturale. Il pianeta è un immenso bozzolo e non è chiaro se quello che ne uscirà fuori sarà una farfalla.
CHANDRA L. CANDIANI — Dostoevskij, I fratelli Karamazov, perché insegna cos’è una crisi della coscienza e come è nobile saper crollare. Osip Mandel’stam, il grande poeta russo che ha scritto: «E nelle notti a testa nuda ululando/ ho imparato la scienza degli addii». E il Buddha che all’origine di tutto ha messo una semplice affermazione: «La sofferenza c’è».