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 2020  settembre 06 Domenica calendario

Intervista a Oliver Stone

Nei suoi primi quarant’anni, ha toccato diverse volte il fondo: “Poi, ho raggiunto il mio sogno: ho guadagnato molti soldi, ho avuto la fama, ho vinto l’Oscar e un bacio di Elisabeth Taylor, mi sono sentito in cima al mondo e non potevo desiderare niente di più. Eppure, il fondamento del mio cinema, così come la verità del mio carattere, non luccicano alla luce dei riflettori. Ho fatto la guerra in Vietnam, sono finito in un carcere della contea di San Diego, sono stato senza un soldo in tasca e con la gente che mi correva dietro perché voleva quel che gli dovevo, ho usato la cocaina per andare avanti e ne sono diventato schiavo. Il finale della storia poteva essere molto diverso da quello che è stato”.
L’appuntamento con Oliver Stone è davanti allo schermo del computer, in collegamento Zoom. La nave di Teseo ha tradotto in italiano la sua autobiografia, “Cercando la luce”, che è il racconto degli anni in cui non era ancora il regista celebrato che è oggi, e in molti gli dicevano che avrebbe fatto meglio a pensare ad altro. Gli anni in cui l’uomo che sarebbe diventato un’icona dell’anti militarismo era in Vietnam e camminava tra i corpi dilaniati dei nemici, dopo che un F-4 Phantom gli aveva sganciato una bomba da duecento chili, e non vedeva nei cadaveri l’inferno, bensì la manifestazione di qualcosa di divino, poiché “osservare e sopravvivere a quella grande energia distruttiva era quanto di più vicino l’uomo potesse arrivare allo Spirito Santo”.

Ha prima sceneggiato film come Scarface e Fuga di Mezzanotte, poi diretto tra gli altri Wall Street, The Doors, Natural Born Killers. Negli ultimi anni, Oliver Stone ha associato se stesso al fronte più controverso della contestazione agli Stati Uniti, girando due documentari su Fidel Castro, un’intervista a Vladimir Putin, un film su Edward Snowden, tutti lavori che i suoi critici hanno gettato nel campo dell’anti-americanismo. E però la storia che racconta Stone in questo libro, forse anche involontariamente, è una storia americana fino all’ultima virgola, è cioè la storia di uno che sbatte il muso a terra e si rialza, che finisce nei sottoscala e risale fino alla cima di Hollywood, uno che cerca spasmodicamente di realizzare un desiderio, lo insegue sudando di giorno e di notte, e alla fine ce la fa. 
Perché la racconta ora questa storia?
Perché arriva un momento nella vita in cui devi guardarti indietro a cercare l’origine di ciò che sei e di ciò che hai fatto, prendere i fatti uno per uno ed esaminarli a fondo, altrimenti finisci per vivere prendendoti per il culo.
Non l’aveva mai fatto prima?
Quando scrivi per il cinema e poi ti metti a fare film, la vita corre così veloce accanto a te che hai l’impressione di guardarla dal finestrino di un treno in corsa, non riesci mai a fermarti su ciò che ti accade, dedicandogli il tempo necessario per vederlo davvero, vivi e basta.
Cosa ha scoperto?
Per esempio, che quando ero in guerra in Vietnam i morti erano ovunque, eppure non avevo idea di cosa fosse la morte, non ci pensavo nemmeno. Ero molto giovane e abbastanza insensibile da poter sopportare bene le crudeltà che accadevano intorno a me. È la specialità dei giovani, del resto: è per questo che da secoli li mandano al fronte.
Quale fu la cosa peggiore che fece?
Sono diventato ufficialmente un assassino durante un agguato che ci tesero i vietcong. Poteva finire in una carneficina se non avessi lanciato, da una distanza di quindici metri, una granata. L’esplosione maciullò un uomo, ma io ero orgoglioso del lancio perfetto che avevo fatto, mi valse anche una stella di bronzo. Ancora oggi, non provo senso di colpa. Io sono vivo, lui è morto: è così che funziona.
Ma allora non è questa la cosa peggiore che fece.
Una volta andai vicino a perdere la testa. Non ne potevo più di contadini vietnamiti che protestavano, piagnucolavano, ci mentivano, ero stufo di tutto. Un contadino cominciò a inveire contro di me e io scattai. Sparai diversi colpi intorno ai suoi piedi, urlandogli: “Zitto e balla, figlio di puttana”. Avrei potuto ucciderlo, senza pagarne le conseguenze. Tendo a pensare che mi trattenne un esile filo di umanità che ancora non si era spezzato.
Perché richiama così spesso Ulisse?
Quando scrissi la sceneggiatura del mio film sul Vietnam, Platoon, per la figura del mio alter ego mi ispirai a Ulisse, il reduce che fatica a trovare la strada di casa. Alla New York University avevo incontrato Tim Leahy, un professore che mi conquistò alla mitologia classica durante una lezione nella quale domandò a noi studenti di pensare al perché Ulisse fu l’unico che riuscì a tornare a casa dopo vent’anni dalla guerra di Troia. Rimanemmo tutti in silenzio, finché lui non scrisse alla lavagna la risposta: “Coscienza”.
Che voleva dire?
Che Ulisse, a differenza degli altri suoi compagni di viaggio, trasformati da Circe in porci, oppure precipitati nell’oblio dal loto che gli diedero da mangiare i lotofagi, era riuscito a rimanere vivo proprio perché era rimasto cosciente. Si fece legare per non cedere al canto delle sirene, e però volle ascoltare le loro voci, perché è quello ciò che separa la vita dalla morte: la conoscenza. Alcuni miei compagni al fronte, sono stati troppo terrorizzati per guardare dentro le brutalità che avevamo fatto e che avevamo subito. Sono diventati alienati, psicotici, razzisti. Come Eracle, spinto alla pazzia. Aiace, morto suicida. Ho scoperto, con gli anni, che oltre la superficie della vita normale c’è una dimensione parallela, che è la dimensione della mitologia.
Le è servita a qualcosa anche la povertà?
Vivere in ristrettezze economiche è un po’ come essere in fanteria e osservare il mondo dalla prospettiva di un soldato semplice, quello che nel cinema si chiama worm’s eye, l’occhio del verme, l’inquadratura da terra: apprezzi molto di più le cose, che si tratti di una doccia o di un pasto caldo.
Pagherebbe per tornare povero?
Non è molto divertente essere poveri alla mia età: è la giovinezza l’età giusta per esserlo. Anche volendo, comunque, non potrei: l’unica cosa che i soldi non possono comparare è proprio la povertà. Io l’ho vissuta in una New York che mi ha sempre ricordato la Parigi anni trenta di Henry Miller, piena di creatività, sesso, divertimento.
E anche droghe, no?
Ho fumato marijuana per tutta la vita, ma quando tornai dal Vietnam prendevo soprattutto Lsd, la droga della verità.
Che vuol dire “della verità”?
Che non puoi raccontarti stronzate quando prendi un Lsd, puoi avere delle visioni celestiali, oppure finire dentro viaggi spaventosi e distruttivi, ma non puoi mai sfuggire da quello che senti davvero in quel momento della tua vita. Credo sia uno dei più grandi indicatori del reale stato d’animo di una persona. Ma questo non significa che stia invitando a farne uso, né soprattutto ad abusarne.
Lei però ha abusato della cocaina.
Era la droga dei party, a Los Angeles, negli anni settanta. Mi faceva sentire energico e grandioso. Divenne un problema grave dopo la delusione del mio film, La mano, perché cominciai ad abusarne e presto persi il controllo di me stesso. A un certo punto, sentivo che le cellule del mio cervello stavano bruciando. Vissi per tre anni intorpidito, come mozzato da me stesso: dal punto di vista materiale, ero soddisfatto, avevo cominciato a ingranare nel lavoro e avevo sposato una donna bellissima, ma, nel profondo, mi sentivo un rottame.
Era convinto che non avrebbe mai sfondato come regista?
Non ero convinto di niente, ma certo non avevo molte conferme. Il primo che mi disse che ero un regista fu Martin Scorsese. Eravamo ancora all’Università. Alla fine del corso, realizzavamo dei cortometraggi e li commentavamo in classe. Quando il mio corto, Last Year in Vietnam, fu proiettato ero già pronto alla critica dei maoisti, che allora imperversavano nell’ateneo. Invece, Martin Scorsese si alzò e disse: “Questo è un regista”. Qualcuno chiese: “Ma perché?”. E lui rispose: “Perché ha fatto un’opera personale”. Non lo dimenticherò mai.
Che differenza c’è tra il “personale” e il “narcisistico”?
Non sono sicuro che ci sia una differenza: non è proprio del narciso prendere tutto sul personale? Io non sono in grado di girare un film, né scrivere una sceneggiatura, se non li faccio interamente miei, anche quando si basano sul libro scritto di un altro.
È preoccupato per il voto in America?
Sono preoccupato come lo sono stato tutta la vita. Tornato dalla guerra in Vietnam, mi trovai di fronte un’altra guerra, stavolta però civile: i neri contro i bianchi, gli uomini contro le donne, l’ordine e la legge contro il nuovo modo di vivere dei giovani ribelli. E oggi sta succedendo di nuovo.
La definisce una guerra civile?
Lo è: una guerra civile che non è mai stata risolta e che forse non potrà mai essere risolta. L’America è un enorme esperimento politico e sociale, ha accolto per decenni un grandissimo numero di immigrati, è per sua natura un paese turbolento, dentro il quale i conflitti sono feroci e le lotte per il progresso si scontrano con una reazione conservativa altrettanto violenta.
Chi vincerà secondo lei?
In un momento analogo a quello che stiamo vivendo oggi, il 1968, l’America scelse un presidente conservatore, Richard Nixon. Un movimento progressista fortissimo aveva scosso il Paese, urlando la propria rabbia per tutte le bugie che il potere raccontava, ma il voto andò dall’altra parte. 
Teme riaccada?
Temo che la violenza possa essere usata per spaventare l’opinione pubblica, scatenando una reazione contraria al movimento Black Lives Matter. Chi protesta ha tutte le ragioni per urlare la propria rabbia contro la polizia che uccide un uomo nero come Geroge Floyd senza alcun motivo. Però, bisogna stare molto attenti a non far entrare in campo il terzo partito, che ha tutto l’interesse ad alimentare la violenza, spingerla fino al limite estremo e scatenare così la paura della gente, obbligandola a scegliere tra il caos e la serenità. I saccheggi, gli incendi, le razzie devono rimanere fuori dalla protesta. Altrimenti, favoriranno la rielezione di Trump.
Teme anche il politicamente corretto?
Mi spaventa il fatto che il politicamente corretto vieti di esprimersi in maniera personale, imponendo un linguaggio falso, necessario però a ottenere un lavoro, far carriera, andare avanti nella vita. Anziché cambiare la realtà, si cambiano le parole. A lei non sembra pericoloso?