Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2020
Il declino di Boris Johnson
Quando è apparso alla House of Commons a Westminster, dopo mesi di assenza e alla riapertura del Parlamento dopo la pausa estiva, Boris Johnson immaginava un ingresso trionfale. Alla ripresa di settembre, con la puntuale riapertura delle scuole, Boris in teoria dovrebbe essere il capitano di una nave che lui ha traghettato fuori dalla tempesta e ora veleggia sotto i migliori auspici: l’estate ha portato un rimbalzo dell’economia e al 30 settembre il Pil è atteso in forte crescita dopo due trimestri negativi consecutivi che hanno spedito il Regno Unito tecnicamente in recessione. E invece dal Question Time è uscito a pezzi. Ma soprattutto, per la prima volta dalle Elezioni di Natale del 2019 che sancirono un plebiscito per Boris dandogli pieni poteri per portare a casa la Brexit, lo spettinato e neo-papà primo ministro è finito in minoranza nei sondaggi: la disapprovazione ha superato i consensi.
Il motivo? Tanti, ma si possono riassumere nella vecchia frase del 1992 dello staff di Bill Clinton: “It’s the economy, stupid”. Subito dopo il lockdown, il Governo ha avuto una rapidità da blitzkrieg per affrontare la crisi: 350 miliardi di sterline, veloci e mirati. Per finanziare questa spesa pubblica senza precedenti, che già di per sé è un’anomalia in un paese dove lo Stato non è uso a sovvenzionare lo Stato Sociale, Johnson ha pigiato sull’acceleratore del debito pubblico: impennata di emissioni di Gilt, i Bot inglesi. Sono stati collocati sul mercato già 150 miliardi di titoli di Stato, un’enormità: in 4 mesi tanto quanto un intero anno. Ma non basta. Perché la spesa farà esplodere il debito: a fine anno il Regno Unito sfonderà la soglia del 100% del Pil, per la prima volta dal Dopoguerra. Chi pagherà tutta questa extra spesa, avendo già finito le munizioni dei Titoli di Stato? Il contribuente di Sua Maestà. Il ministro del Tesoro Rishi Sunak ha terrorizzato tutti, partito ed elettori, mettendo avanti le mani: inutile addolcire la pillola: l’unico modo per finanziare la montagna di soldi statali per tenere in piedi l’economia, il doping che ha drogato il Pil, è aumentare il prelievo fiscale.
Per un Governo Tory mettere mano alle tasse è una sorta di eresia. Ma c’è da spesare l’immenso deficit richiesto dalla crisi del Covid. E dunque anche l’ortodossia val bene un’abiura. Da marzo 9 milioni di lavoratori, pubblici e privati, sono in furlough, l’equivalente della Cassa Integrazione: 80% di stipendio pagato dallo Stato per un costo di circa 40 miliardi. «La sensazione – dice un uomo d’affari – è che a Downing Street stiano gettando tante esche e poi in base alla reazione dell’opinione pubblica, scegliere quale tassa aumentare». Ma non tutte le tasse sono uguali. Una delle imposte finite nel mirino è la Corporate Tax. A oggi il Regno Unito è uno dei paesi con la più bassa tassazione Ires in Europa. Alzare la tassa sulle imprese sarebbe la mossa più indolore e il paese rimarrebbe comunque competitivo. Ma il peso sul totale è basso e dunque il gettito sarebbe insufficiente. La voce più grossa del fisco inglese è la Income Tax da cui arrivano 192 miliardi. Un aumento darebbe le risorse necessarie per coprire il buco di bilancio, ma la tassa è già alta in percentuale mentre c’è una soglia di esenzione sotto le 13mila sterline. La No Tax Area potrebbe essere abbassata ma sarebbe una mazzata su tantissimi lavoratori autonomi, la marea di piccoli professionisti e free-lance che sono la fascia più debole dei lavoratori e anche milioni di voti. Rischia di essere un boomerang per il premier, la cui popolarità è in calo anche tra le fila del partito Conservatore.
La Storia non si ripete mai allo stesso modo, ma molto spesso fa rima, recita un adagio britannico. E a Westminster tra i banchi dei backbencher, i deputati della maggioranza, sono sempre di più i parlamentari che paragonano Johnson a Harold MacMillan, il premier conservatore che non voleva far entrare la Gran Bretagna nella Cee e poi invece pietì a Bruxelles l’ingresso ma ottenne un umiliante rifiuto.
Partito incendiario, Boris è ormai sempre più pompiere: la contraddittoria gestione del Covid riassume bene la parabola del premier: dall’immunità di gregge alla mascherina obbligatoria in tutti i negozi. Sta inanellando una serie di passi falsi: continue giravolte e cambi di idea. L’ultima sull’obbligo della mascherina a scuola: prima No, po Sì, poi No. Ma questo è niente in confronto alla tempesta che si è abbattuta sul Governo per le immatricolazioni all’Università, che ha fatto saltare la testa del capo di Ofqual, l’agenzia governativa per le pari opportunità. La sensazione, anche in parte dell’opinione pubblica, è che il premier stia girando a vuoto, che non abbia più la presa sul governo. E ci sarebbe pure un punto preciso per questa svolta al ribasso: la malattia. Dopo il ricovero per Covid, dove ha rischiato la vita, Boris è tornato in sella meno baldanzoso, sicuro e determinato. Ora sembra un Re Tentenna. E un primo ministro indeciso è l’ultima cosa di cui il paese ha bisogno in questo momento.
Perché sarà un autunno caldo anche nel Regno Unito: a fine ottobre finisce lo scudo del furlough, e sotto l’albero di Natale il paese troverà invece dei regali migliaia di disoccupati. La lista delle grandi aziende che hanno già annunciato licenziamenti si allunga: HSBC, Ba e Bp taglieranno decine di migliaia di posti. Decine di ristoranti stanno chiudendo i battenti: su tutti Pizza Express e lo storico italiano Carluccio’s, ciascuno con migliaia di dipendenti. Lo smart working ha trasformato la City di Londra in una ghost town, dove l’economia è crollata.
Con una severa recessione alle porte, un No Deal, l’uscita al buio dalla Ue rischia di dare una mazzata ulteriore a un’economia sotto forte stress: quel +15% di aumento del Pil previsto a fine mese sarà un fuoco fatuo. Il vero banco di prova sarò l’ultimo trimestre. I Tory hanno una lunghissima tradizione di “morti bianche” dei propri premier: l’ultimo caso è quello di Theresa May, liquidata in fretta e furia proprio per far posto a Boris. Ma per ora nessuno nell’ala oltranzista del partito, capitanata da Jacob Rees-Moog e Michael Gove, affonderà il colpo. Lo snodo sarà la Brexit, l’altro pacco avvelenato da scartare sotto Natale. C’è chi dice che a gennaio Boris sarà sfrattato da Downing Street. Per il laureato a Oxford che ha scritto una apprezzata biografia su Winston Churchill, sarebbe un destino molto meno glorioso di quello del suo idolo.