Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 06 Domenica calendario

Le colpe delle donne maltrattate

Chi viene nel mio studio, in genere, mi chiede di essere difeso dalle angherie del partner: indifferenza, tirchieria, tradimenti, offese e altro. La nostra conversazione, quindi, indirizzata alla spiegazione da parte mia della più opportuna strategia e alla condivisione da parte del cliente.
Quando arriva una donna che subisce violenza domestica, invece, si crea una rivoluzione surreale di ruoli e di eventi. La donna comincia a raccontarmi di botte, spintoni, crudeltà e persecuzioni d’ogni tipo; io, dapprima mi indigno, spesso mi angoscio o mi commuovo e prendo, quindi, a elencarle tutte le opportunità per difendere lei e attaccare lui; lei, inopinatamente – ma ormai ho capito che è la regola – si precipita in un’incontrollabile rincorsa per difendere lui e attaccare me. «Lei avvocato non capisce»; «Lui mi ama»; «Senza di lui io non sono niente»; «Quando si arrabbia è una persona diversa»; «Lei non può prendersela con uno disperato»; “Lui ha bisogno di me». «Scusi signora, perché allora lei sta cercando il mio aiuto professionale?». «Per capire cosa rischia lui e come posso proteggerlo».
Dopodiché, generalmente, scoppia in un pianto a dirotto, mi dice che deve riflettere e mi assicura che tornerà. Ormai so che è una bugia che facilita la via di fuga. Ecco, questo è il dramma della violenza. La coppia che la vive è complice della medesima patologia di abuso e dipendenza. In genere è una coppia simbiotica. Come dimostra la 28enne del Torinese, abbandonata in mezzo alla strada. Racconta ai medici delle violenze che subisce sistematicamente e della sottomissione assoluta al suo uomo. Ma afferma anche, col vigore che le resta, che non vuole lasciarlo e che, comunque sia, non saprebbe dove andare.
Dolore, umiliazione, potere, disperazione, malamore, tutto in un gomitolo inestricabile. Non si può credere che si voglia stare con il proprio carnefice e che non si possa trovare nessun altro posto al mondo per vivere in modo meno avvilente e penoso. Eppure, chi subisce la violenza, «ragiona» proprio così. Crede che sia giusta una coppia, non modulata sulla libertà e l’autonomia, bensì patologicamente compressa e compromessa nell’abuso e nella dipendenza. Segnata dal perimetro della sofferenza. Purtroppo, la violenza di questo genere non è mai estemporanea, bensì intenzionale e finalizzata a ottenere qualcosa: il controllo dell’altra, il piacere di sottometterla, la forza di gestirla. Le malcapitate donne non capiscono, si illudono, se la raccontano. Per un’infinità di motivi: per un senso di colpa indotto (credono di non avere fatto abbastanza per uno che dice di amarle), per paura (di restare sole se eliminano in qualche modo quel bruto), per vergogna (di quello che penseranno gli altri). Così passano, come se niente fosse, dall’assenza di autostima che giustifica queste spiegazioni, all’autostima esagerata di quando si fanno prendere dalla sindrome della crocerossina («Io lo salverò e mi amerà di più»). La conclusione è che c’è un evidente concorso di colpa in questi casi, nell’abusante e nella vittima. Che non possono rinunciare l’uno all’altra e viceversa. Sono complici del dolore. E la vittima è convinta del proprio potere salvifico sul violento. Come se, scoppiato un incendio, uno decidesse di restarvi dentro per spegnere le alte lingue di fuoco soffiandovi sopra col proprio alito.
I politicamente corretti si arrabbiano quando io dico queste cose. Ma, secondo me, è troppo facile dare tutta la colpa al violento e al femminicida, se non si conosce l’aiuto che, sistematicamente, la vittima gli fornisce con la generosità della crocerossina. Una generosità cieca e spesso disgraziatamente suicida. Noi donne abbiamo il destino di dare la vita; siamo inclini per lo più ad accogliere e curare; ma non è un nostro dovere a prescindere da qualsiasi contesto. E non dobbiamo giudicarci né egoiste né vigliacche se pensiamo che, proprio per questo, la nostra vita è più preziosa della missione di curare qualcuno che ci fa del male. Dunque, prima di illuderci di saper curare gli altri, e soprattutto i violenti, addirittura di doverlo fare, proteggiamo noi stesse dagli altri. Da chi ci obbliga a subire. Non facciamoci mai schiacciare. Oppure, più semplicemente, pensiamo ciò che diceva Che Guevara: «Preferisco morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio».