Lei è nata a Napoli.
«In piazza Ottocalli dove c’è un busto in onore al tenore Enrico Caruso. Mamma casalinga, padre operaio, un fratello di tre anni più grande e io Fabrizio che mi sentivo normale anche se ero diverso perché con la mia amichetta Desireé mi mettevo lo smalto e sognavo di avere il seno. Una pubertà terribile perché già dall’infanzia sentivo che la mia femminilità era soffocata. Ho fatto la comunione con il saio dei francescani, ma avrei voluto indossare il vestito bianco. Nell’80 in tv vedo Mennea vincere i 200 metri a Mosca e mi innamoro dell’atletica, anzi della sua rabbia, della sua tenacia, della sua voglia di riscatto».
Inizia a correre?
«Tento, faccio una prova a Caserta, con le scarpe normali, ma l’allenatore mi dice che corro come una donna. Per lui era un’accusa. Quindi passo al calcio, in porta, il Napoli mi scarta, giocherò a calcetto. Finisco l’esame di terza media e leggo un foglio, non ci riesco, credo perché non ho con me gli occhiali. A settembre mio fratello mi chiede di dettargli una cosa e si accorge che ho difficoltà con il testo. Giriamo l’Europa per cercare di capire il problema dei miei occhi, a Parigi resto 10 giorni in ospedale».
Sindrome di Stargardt.
«Degenerazione maculare ereditaria, non c’è niente da fare. Io la prendo male, anzi non voglio accettarlo, papà mi mette in mano la mia tessera da cieco. E io la strappo. A 20 anni mi trasferisco a Bologna, città più adatta, studio al Cavazza, divento programmatore informatico, inizio a fare atletica, nel ’95 ho buoni risultati, potrei classificarmi per le Paralimpiadi di Atlanta, ma non mi sento a mio agio come uomo e lascio perdere. L’ultima mia gara maschile è a ottobre 2018».
Ora lei è la sprinter Valentina.
«Si. Ho iniziato il trattamento ormonale il 4 gennaio 2019. Il primo mese sono ingrassata 10 chili, per 90 giorni non sono più riuscita a correre, mi faceva male tutto. Le mie prestazioni sono crollate, un secondo e mezzo in più nei 200 metri, la mia mente andava veloce, il mio corpo no. Anche i recuperi erano difficili. Sono stati mesi distruttivi, il mio corpo cercava strade alternative, lottava contro il nuovo metabolismo, la mia fame restava da maschio. Intanto cambiavo allenatore, per quello di prima sembravo non esistere più».
Da Fabrizio ha vinto 11 titoli italiani.
«Spero bastino per rispondere alle accuse di chi dice che cambio sesso per avere la vita facile in corsia. Come se uno si divertisse ad ottenere una certificazione di transgender quando in Emilia-Romagna nelle istituzioni trovi più facilmente chi cerca di persuaderti a desistere dalla terapia ormonale. Per la legge, diventando donna devo divorziare da mia moglie che ho sposato nel 2016 e mi ha sempre sostenuto nel mio nuovo percorso».
Il suo fisico non passa inosservato: 1,82 per 81 chili.
«Non sono una piccolina, da uomo ne pesavo 77. Ma quello che mi interessa è qualificarmi per Tokyo. Ora posso perché la Fispes recepisce il regolamento della World Athletics, che fissa il parametro dell’eleggibilità per atleti trans he to she in 12 mesi continuativi con una concentrazione certificata di testosterone inferiore a 5 nmol/L. Resta che sui 200 mi devo migliorare di due centesimi».
Cosa dice alle sue avversarie e a chi verrà a vederla?
«Che non sono una persona né sleale né scorretta. Inseguo un sogno e la felicità. Io mi sento donna a prescindere da quello che ho tra le gambe, ma purtroppo per la società conta solo quello».