la Repubblica, 6 settembre 2020
La corsa al vaccino nella Guerra Fredda Usa-Cina-Russia
Se il virus Covid 19 ha dimostrato l’impreparazione della comunità internazionale davanti ad una pandemia, la confezione e distribuzione del vaccino possono essere il banco di prova per la nascita di una cooperazione rafforzata globale sulla Salute. Ma a patto di evitare due ostacoli in agguato: il nazionalismo sanitario e la guerra di hacker per rubare i segreti della lotta al coronavirus.
Sono circa cento i tentativi in corso per realizzare il vaccino da parte di compagnie farmaceutiche, centri accademici e governi nazionali: almeno 70 di questi vengono monitorati dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ed in una decina di Paesi si stanno svolgendo fasi avanzate di test clinici che si propongono di raggiungere un risultato positivo al più tardi entro la fine dell’anno.
Ciò significa che la comunità scientifica si sta avvicinando in maniera decisiva al vaccino ma è al tempo stesso indebolita dalla forte competizione fra gli Stati, che ha motivazioni non solo economiche ma anche politico-strategiche. Oltre la metà di questi possibili vaccini vedono infatti la partecipazione di centri di ricerca situati negli Stati Uniti o in Cina, ovvero i due Paesi più ricchi e potenti del pianeta al centro di una aspra competizione globale che evoca il precedente della Guerra Fredda.
Il consorzio americano “Moderna Inc.” ha iniziato i primi test su larga scala su esseri umani a Seattle, nello Stato di Washington, già in marzo ed altri simili tentativi sono in corso da parte di giganti farmaceutici occidentali come Johnson & Johnson, Merck e Pfizer, mentre Pechino segue una corsia propria di sviluppo, in totale autonomia, ed ha da poco annunciato il successo nella produzione del primo vaccino da parte di “CanSimo”. Con l’evidente obiettivo di ripetere sulla Sanità il vantaggio che ha rispetto all’America sulle tecnologie emergenti.
Anche la Russia di Vladimir Putin, altro rivale strategico degli Stati Uniti, ha fatto un simile annuncio sul vaccino con “Gemaleya”, approvandone subito la distribuzione ad alcuni gruppi “più a rischio” dopo una fase di test clinici su centinaia di pazienti, sollevando i dubbi della comunità scientifica per l’entità troppo esigua del campione. Il Cremlino ha denominato il vaccino “Sputnik V” per richiamarsi esplicitamente al precedente del 1957 quando l’Urss sorprese gli Usa inviando per prima l’omonimo razzo attorno alla Terra. Insomma, tanto Pechino che a Mosca stanno tentando di chiudere la crisi della pandemia infliggendo una sconfitta scientifica agli Stati Uniti.
Ma la ricerca in Occidente è anch’essa lanciata verso il vaccino. Nella delicata partita in corso un posto di riguardo spetta alla compagnia anglo-svedese AstraZeneca che, in collaborazione con l’università di Oxford ed il centro di ricerca “Irbm” di Pomezia, sta eseguendo test su almeno quarantamila esseri umani in Brasile, Sudafrica e Stati Uniti: i primi risultati consentono di sperare di entrare a breve nella fase conclusiva. Se a questo aggiungiamo altri tentativi, molto concreti – in Germania, Svezia, Gran Bretagna e India – e la decisione adottata dall’Unione Europea di destinare 8 miliardi di euro alla ricerca del vaccino ed all’acquisto delle dosi non è difficile arrivare alla conclusione che la quasi totalità dei più accreditati centri di studio del Pianeta stanno lavorando nella stessa direzione. Da qui la diffusa sensazione che il momento della scoperta del vaccino si stia avvicinando.
Ma l’assenza di un qualsiasi coordinamento fra i diversi tentativi in corso e la scarsa credibilità dell’Organizzazione mondiale della Sanità sollevano il rischio di un approccio al vaccino di stampo “sovranista”, ovvero con la distribuzione delle prime dosi disponibili alle popolazioni di singoli Paesi, scelti sulla base di esigenze prettamente nazionali.
Ad avvalorare tale scenario è proprio quanto successo da metà agosto: prima la Cina ha annunciato di aver approvato il suo vaccino con il team scientifico guidato da Wei Chen spiegando che “è sicuro e genera una risposta immunitaria”, quindi la Russia ha fatto sapere di aver autorizzato la somministrazione dei suoi primi vaccini “sul territorio nazionale” che diventeranno “un processo di inoculazione di massa in ottobre” e infine il Centro contro le malattie infettive (CDC) di Atalanta, in Georgia, ha chiesto formalmente a tutti i 50 Stati Usa di prepararsi a distribuire un “potenziale vaccino a partire dal 1 novembre” ovvero 48 ore prime delle elezioni presidenziali.Stiamo dunque assistendo ad un’accelerazione della corsa da parte di Cina, Russia e Stati Uniti. Se a questo aggiungiamo che l’intelligence americana, britannica è canadese ha lanciato più volte da luglio il monito contro il rischio che “hacker cinesi o russi” si impossessino di “cruciali informazioni farmaceutiche sulla produzione del vaccino” non è difficile comprendere perché fra gli esperti più impegnati sul fronte della ricerca inizi ad affacciarsi il rischio che gli interessi nazionali “possano portare ad ostacolare le ultime fasi del vaccino, produzione e distribuzione, magari facendo leva sul tracciato dei confini” afferma Mene Pangalos, capo della ricerca biofarmaceutica di AstraZeneca impegnata a prevenire tale scenario con la creazione di una propria rete di distribuzione di vaccini per un totale di 2 miliardi di dosi in Europa, Brasile, India, Russia India e Stati Uniti. Si spiega così anche la decisione di quattro giganti dell’industria farmaceutica americana -Pfizer, Johnson & Johnson e Moderna – di impegnarsi a non cercare l’approvazione del governo federale per il vaccino se non saranno prima “assolutamente sicuri” che sia “sicuro ed efficace”: per evitare che nell’imminenza dell’Election Day il presidente Donald Trump sfrutti i progressi compiuti per annunciare la svolta per facilitare la rielezione. A conti fatti nella comunità scientifica in prima linea nella ricerca sul vaccino si sovrappongono tre timori: che l’annuncio su produzione e distribuzione sia condizionato dalla rivalità strategica far Usa, Russia e Cina; dalle elezioni presidenziali americani; da altre rivalità fra gli Stati più impegnati nella gara.