È deciso: si va a Roma. Ci sono voluti tre giorni di discussione in Consiglio dei ministri e, alla fine, una notizia: ieri, domenica 4, all’una di notte, è stata proclamata la Repubblica a Parigi. Napoleone III è uscito dalla scena europea nel modo più infelice. A luglio è caduto in una trappola: gli spagnoli, che faticavano da tempo – e sempre un po’ faticheranno – a trovarsi il re giusto, avevano pensato di prendersene uno da un ramo secondario, e cattolico, degli Hohenzollern, la casa regnante a Berlino. A Parigi, prima, era stata sindrome d’accerchiamento – i tedeschi sui Pirenei, oltre che sul Reno – poi, più che altro, era divenuto puntiglio: l’imperatore dei Francesi ha dichiarato guerra alla Prussia, che non aspettava di meglio per andare a trovarlo, portandosi appresso anche gli eserciti di altri stati tedeschi, l’imminente grande Germania insomma.
Quattro giorni fa Napoleone è stato sconfitto a Sedan, dipartimento delle Ardenne. Ha scritto al re Guglielmo questo biglietto: « Signor mio fratello, non essendo potuto morire fra le mie truppe, non mi resta che rimettere la mia spada fra le mani di Vostra Maestà » . L’altro gli ha risposto: « Signor mio fratello, dolendomi delle circostanze nelle quali ci incontriamo, accetto la spada di Vostra Maestà, e la prego di nominare uno dei vostri ufficiali, munito dei vostri pieni poteri, per trattare la capitolazione dell’esercito che si è così valorosamente battuto sotto i vostri ordini » . Sotto i suoi ordini, proprio, no: non era in condizione di darli. Bastava guardarlo, là, al castello di Belle- Vue sulla scala in attesa del " fratello" vittorioso. Il volto era grigio, più che per la sconfitta, forse, per i dolori che pativa da settimane e settimane: mal della pietra, calcoli, sommati a prostatite. Immaginate cosa possa esser stato curarseli andando a cavallo. Adesso è prigioniero, ma trattato come un ospite, nel castello di Wilhelmshöhe, in Assia.
Victor Hugo, che proprio oggi rientra in Francia dall’esilio, lo ha sempre chiamato "Napoleone il piccolo". Quando sarà passato più di un secolo un politico gollista di valore, Philippe Séguin, gli dedicherà un libro intitolato Luigi Napoleone il Grande. Confesso di aver sempre avuto più simpatia per lui che per lo zio. Ma ammetto che entri in gioco più il sentimento che il giudizio: penso alla sua gioventù italiana e carbonara. Penso anche al più simpatico, forse l’unico simpatico, dei re d’Italia, Vittorio Emanuele II, il quale, certo, deve aver sofferto molto a non poter correre in soccorso del monarca che tanto lo ha aiutato a conquistare una parte della penisola e ha poi lasciato che si prendesse il resto.
Non tutto il resto, però: e questo è il punto. Il padrino, diciamo così, dell’unità nazionale italiana, era anche il protettore del potere temporale del papa a Roma. L’amicizia italo- francese si è incrinata a Mentana nel 1867: Napoleone III ha mandato di nuovo i suoi soldati, i cui fucili a retrocarica hanno, come ha detto il generale de Failly, " fatto meraviglie" contro i volontari di Garibaldi. E, d’altra parte, una trattativa fra Parigi, Vienna e Firenze, per costituire un’alleanza capace di ostacolare la tendenza egemonica tedesca si è trascinata senza risultati, andando sempre ad arenarsi negli scrupoli romani di Napoleone III. Ora la strada sembra libera. Ancora ieri i ministri di Vittorio Emanuele discutevano se l’occupazione italiana dei territori rimasti sotto il dominio pontificio dovesse fermarsi alle porte di Roma: la maggioranza, che comprendeva il presidente del Consiglio Lanza, il ministro degli Esteri Visconti Venosta, il ministro della Guerra Govone, era stata appunto di questo parere. Il giorno dopo la Repubblica Francese ha fatto il miracolo: ora sono tutti d’accordo con il ministro delle Finanze Quintino Sella. Si va a Roma.
Roma, 6 settembre 1870, martedì
Pio IX nel pomeriggio ha percorso a piedi tutto il Corso fino a piazza Venezia. Giovanni Maria Mastai Ferretti, come si è chiamato al secolo, è nato a Senigallia il 13 maggio 1792: ha dunque compiuto settantotto anni già da un pezzo. È sempre stato piuttosto malandato di salute, ma non finisce di stupire i medici per le infinite risorse della sua fibra. Qualcuno avrà certamente interpretato la passeggiata come una manifestazione di fiducia, di sicurezza, magari anche di decisione, data dal sovrano al suo popolo. Qualcun altro avrà invece pensato che a questo papa non è mai dispiaciuto passeggiare.
Il problema è che le cronache non danno mai – e non da oggi, da sempre – versioni simili degli atti, anche i più semplici, del pontefice. Il Divin Salvatore, un settimanale cattolico che già nel titolo manifesta un’esagerata sicurezza di sé, racconterà che “il nostro S. Padre nelle ore pomeridiane di quell’istesso giorno, fra la gioia e le acclamazioni festose del popolo affollato intorno alla Sua Sacra Persona, a piedi percorreva la frequentatissima Via del Corso, non risalendo in Carrozza che presso la piazza di Venezia”.
Nicola Roncalli, che da più di vent’anni tiene il suo diario di Roma, scrive semplicemente:” Il S. Padre, alle 5 pomeridiane del 6 corrente, entrò a piedi da porta del Popolo sino a piazza di Venezia con un silenzio sepolcrale”.
La verità è forse che il popolo di Roma è un po’ un mistero, a volte anche per i romani stessi. Otto anni fa, 1862, prima che succedesse il fattaccio di Aspromonte – Garibaldi ferito a una gamba – un deputato lucano che si chiama Ferdinando Petruccelli della Gattina pronunciò una requisitoria quasi violenta contro i romani che non facevano nulla per liberarsi del regime papale. La finì con questo insulto:” Ma bisogna avere non sangue, non acqua nelle vene, bisogna avervi sciroppo!”.
Quest’idea dello sciroppo nelle vene dei romani è talmente piaciuta in giro per l’Italia che oggi, otto anni dopo, il Fanfulla di Firenze la ritira fuori in prima pagina:” Come volete che i Romani siano padroni dei loro destini quando la parte ferruginosa del loro sangue è sopraffatta da quella sierosa?
L’Italia ha visto per dieci anni un popolo, che le dovea dare la capitale, diventare anemico, per le vigilie, le quattro tempora, i venerdì e i sabati, e i mercoledì delle Madonne del Carmine!”. Uno scherzo, certo: nient’altro, o forse poco più che questo.
Roma, 6 settembre 1870, martedì
Pio IX nel pomeriggio ha percorso a piedi tutto il Corso fino a piazza Venezia. Giovanni Maria Mastai Ferretti, come si è chiamato al secolo, è nato a Senigallia il 13 maggio 1792: ha dunque compiuto settantotto anni già da un pezzo. È sempre stato piuttosto malandato di salute, ma non finisce di stupire i medici per le infinite risorse della sua fibra. Qualcuno avrà certamente interpretato la passeggiata come una manifestazione di fiducia, di sicurezza, magari anche di decisione, data dal sovrano al suo popolo. Qualcun altro avrà invece pensato che a questo papa non è mai dispiaciuto passeggiare.
Il problema è che le cronache non danno mai – e non da oggi, da sempre – versioni simili degli atti, anche i più semplici, del pontefice. Il Divin Salvatore, un settimanale cattolico che già nel titolo manifesta un’esagerata sicurezza di sé, racconterà che “il nostro S. Padre nelle ore pomeridiane di quell’istesso giorno, fra la gioia e le acclamazioni festose del popolo affollato intorno alla Sua Sacra Persona, a piedi percorreva la frequentatissima Via del Corso, non risalendo in Carrozza che presso la piazza di Venezia”.
Nicola Roncalli, che da più di vent’anni tiene il suo diario di Roma, scrive semplicemente:” Il S. Padre, alle 5 pomeridiane del 6 corrente, entrò a piedi da porta del Popolo sino a piazza di Venezia con un silenzio sepolcrale”.
La verità è forse che il popolo di Roma è un po’ un mistero, a volte anche per i romani stessi. Otto anni fa, 1862, prima che succedesse il fattaccio di Aspromonte – Garibaldi ferito a una gamba – un deputato lucano che si chiama Ferdinando Petruccelli della Gattina pronunciò una requisitoria quasi violenta contro i romani che non facevano nulla per liberarsi del regime papale. La finì con questo insulto:” Ma bisogna avere non sangue, non acqua nelle vene, bisogna avervi sciroppo!”.
Quest’idea dello sciroppo nelle vene dei romani è talmente piaciuta in giro per l’Italia che oggi, otto anni dopo, il Fanfulla di Firenze la ritira fuori in prima pagina:” Come volete che i Romani siano padroni dei loro destini quando la parte ferruginosa del loro sangue è sopraffatta da quella sierosa?
L’Italia ha visto per dieci anni un popolo, che le dovea dare la capitale, diventare anemico, per le vigilie, le quattro tempora, i venerdì e i sabati, e i mercoledì delle Madonne del Carmine!”. Uno scherzo, certo: nient’altro, o forse poco più che questo.
Caprera, 7 settembre 1870, mercoledì
"Ieri vi dicevo: guerra ad oltranza a Bonaparte. Vi dico oggi: sorreggere la Repubblica Francese con tutti i mezzi. Io, invalido, mi sono offerto al governo provvisorio di Parigi e spero non mi sarà impossibile di compiere un dovere. Sì! Concittadini miei, noi dobbiamo considerare un sacro dovere soccorrere i nostri fratelli di Francia". È un appello di Giuseppe Garibaldi "agli amici".
L’eco che riesce ad avere nella stampa italiana è tardiva – come d’altronde la posta – e piuttosto limitata: da quando, a luglio è cominciata la guerra franco- prussiana, l’attenzione degli italiani è sempre più rivolta a Roma, non a Parigi. Poi, con la prigionia di Napoleone III e la fine del Secondo Impero, è diventato chiaro a tutti che è venuto a mancare il principale protettore del potere temporale del papa: Napoleone III, appunto.
In più l’appello di Garibaldi contiene qualche stranezza: " La nostra meta – ha scritto ancora il generale – non sarà certamente di combattere i fratelli della Germania, che, braccio della Provvidenza, rovesciarono nella polve l’incubo della tirannide che pesava sul mondo". Come si fa ad aiutare i francesi senza combattere i tedeschi che intanto minacciano Parigi? Una risposta possibile è che la logica non è proprio la virtù tipica degli eroi. Un’altra è che il nostro eroe non dev’essersi mai abituato a rileggere ciò che scrive.
La stranezza vera, però, è un’altra. Per trovarla bisogna andare indietro, anche molto indietro, nel tempo: la Repubblica Romana del 1849, il 1860, quando il generale che voleva salire a Roma fu preso come scusa da Cavour per far scendere Cialdini nelle Marche e in Umbria, il 1862, quando Garibaldi era ripartito dalla Sicilia per arrivare a Roma ed era stato molto malamente fermato all’Aspromonte, infine il tentativo d’insurrezione popolare del 1867, fallito, e la sconfitta dei garibaldini a Mentana. Il fatto è che negli ultimi ventuno, ventidue anni, il Risorgimento è stato fatto da due forze diverse, quasi due Italie, a tratti cooperanti, più spesso in contrasto fra loro: l’Italia della monarchia, partorita dalla mente di Cavour, che in principio non l’aveva neppure interamente pensata, e l’Italia della rivoluzione nazionale, ovvero della Repubblica, come l’ha sempre predicata Giuseppe Mazzini.
Da questo sommario spero che almeno una cosa sia venuta fuori chiara: Garibaldi è nell’ambito rivoluzionario, che pure sempre gli appartiene, lo specialista assoluto di Roma. Com’è che oggi, 7 di settembre, quando certamente anche a Caprera sono arrivate le notizie dei tempestosi dibattiti al Parlamento di Firenze, dei comizi a Milano e in altre città, sull’urgenza di andare a Roma, com’è che pensa ad altro? Forse si rende conto che la storia che sta per compiersi a Roma è del tutto diversa da quella che ha fatto lui, Garibaldi, fino a ieri: ed è per questo che vuole andare in Francia.
Orvieto, 8 settembre 1870, giovedì
Nino Bixio, uno dei pochi personaggi che dall’inizio alla fine della vita potrebbero fare da protagonisti a un centinaio di romanzi, è arrivato ieri a prendere il comando della divisione che gli è stata finalmente assegnata. Raffaele Cadorna, il generale in capo del Corpo di osservazione nell’Italia Centrale, in agosto lo aveva rifiutato, prendendo come argomento certe sue intemperanze, in particolare quella di aver dichiarato di voler buttare nel Tevere tutti i cardinali. Al suo posto era stato messo Cosenz, altro ex garibaldino, ma miglior carattere. Poi, però, al Ministero della Guerra, ci si è accorti che solo tre divisioni, tutte al Nord di Roma, non sarebbero forse bastate all’impresa. Se ne sono dunque aggiunte due: una proveniente da Sud, al comando del generale Angioletti, l’altra, appunto, al comando di Bixio, puntata verso Civitavecchia, il porto principale del pericolante Stato Pontificio. Poi si vedrà.
Ora Nino Bixio, come fa quasi tutti i giorni, scrive alla moglie Adelaide: "Le truppe cominciano ad arrivare, ed è sperabile che fra oggi e domani saremo pronti a varcare la famosa frontiera. Io comando una Divisione che porta il nome di Seconda Divisione mobilizzata; essa è destinata ad operare nel territorio Romano, ed è indipendente dal Corpo di Cadorna, che opera in Val di Tevere direttamente su Roma. Io miro a Viterbo e Civitavecchia; la mia è missione tutta militare: quella di Cadorna tutta politica. Neppure la mia è campagna militare, perché il nemico è troppo inferiore di numero: è possibile che voglia resisterci o a Viterbo od a Civitavecchia, dove sono i così detti Zuavi pontifici. Ma la loro resistenza non può essere un ostacolo per me prima di Civitavecchia, che è abbastanza fortificata per impedirmi di prenderla d’assalto. Quanto a Roma, le istruzioni del Governo sono, di rispettare la città Leonina, e di non occuparla a meno che il Papa non fugga, come si teme. Se come dovrebbe essere, ed è sperabile che sia, le forze pontificie si concentrano a Roma nel forte Sant’Angelo, e non tireranno sulla città limitandosi a difendere la destra del Tevere, allora noi non spareremo fucile. Si dice però che gli stranieri vogliano resistere, malgrado l’ordine del loro Governo: in questo caso vedremo come devono esser trattati".
Mi sembra, questo di Bixio, un ottimo riassunto della situazione: quella che appare, naturalmente, come la si può conoscere, non necessariamente come si presenterà. Riassumo anch’io. Il quartiere generale di Cadorna è a Spoleto, che da secoli è considerata la chiave d’entrata e d’uscita per l’Italia Centrale. A Orvieto, oltre a Bixio, c’è già il generale Emilio Ferrero ( tredicesima divisione). Gustavo Mazè de La Roche (dodicesima) sta a Terni, Enrico Cosenz ( undicesima) a Rieti. A Sud in prossimità del confine di Ceprano c’è la nona divisione di Diego Angioletti. In tutto fanno circa sessantamila uomini. L’esercito pontificio arriva, sì e no, a quattordicimila. Ma c’è ancora da tentare la via diplomatica.
Roma, 9 settembre 1870, venerdì
Ci vogliono un po’ più di dieci ore per andare in treno da Firenze a Roma: la ferrovia fa un giro largo per Foligno e Terni. Il conte Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno, è partito ieri sera ed è arrivato questa mattina. Ha nella borsa due lettere che devono essere consegnate: una, del presidente del Consiglio Lanza, è per il cardinale segretario di Stato, Giacomo Antonelli, l’altra è di Vittorio Emanuele II, per Pio IX.
Appena entrato in territorio pontificio, si è naturalmente scosso da quel torpore che il treno procura sempre, anche nelle ore di più forte tensione. Ha spalancato gli occhi davanti a quel terreno potenzialmente nemico. Domani scriverà a Lanza: “Lungo la strada e pel grande spazio cui si estende la vista in queste immense campagne deserte d’alberi, non ci fu dato né di vedere soldati ed opere di difesa, né d’accorgerci d’entrare in un paese che si voglia difendere da un’invasione. Solo dopo di essere penetrati col convoglio nelle mura di Roma, abbiam veduto alcuni cannoni ed un posto di soldati presso di essi”. Ponza di San Martino è ricevuto alle sette di sera da Antonelli, che sta nel Palazzo Apostolico, al piano sopra dell’appartamento del papa: sono circa vent’anni che a Roma si fanno battute su chi, dei due, sta sopra e chi sotto. Il cardinale è noto al mondo, o almeno alla diplomazia, per il suo stile cortese e per la facondia, disturbata solo da un invincibile accento ciociaro. Tratterrà per oltre due ore il senatore, il quale però l’avverte subito di avere “ il triste incarico di prevenire il governo di Roma che l’ordine è già dato alle truppe italiane di entrare nel territorio pontificio”. Poco dopo aggiunge: “ Voi ci accuserete di essere spogliatori, ma se lei, Eminenza, avesse la bontà di ascoltarmi, vedrebbe che siamo spogliatori d’un genere affatto nuovo, poiché la prima e la più forte delle nostre preoccupazioni in questo momento è quella di mettere il papa in condizione di rimanere in Roma con tutte le sue istituzioni, libero e sicuro”. Un bel po’ del tempo appresso è speso dal senatore a illustrare le garanzie che il Regno d’Italia offre al papa: gli sarebbero conservate “ la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità”, una sovranità spirituale, beninteso, che però potrebbe restare “piena giurisdizione” sulla cosiddetta Città Leonina. In altre parole, il potere temporale del papa continuerebbe su quel fazzoletto di terra che sta fra il Vaticano e la riva destra del Tevere.
Antonelli ha ascoltato, cortesemente, anche se in qualche momento sembrava distrarsi. Adesso viene al punto: “Ma in nome di chi, signor conte, ella promette quanto mi ha esposto?”. “Ma in nome del governo del re!”. “Ebbene, mi permetta, anzitutto, che le richiami a memoria che detto governo è costituzionale. Ed ella ben sa che il ministero oggi al potere domani può mutare, e può succedergliene un altro di opposta indole”. Sarà un’altra ora di filippica del cardinale contro il sistema parlamentare. Poi Antonelli concluderà: “ Faccia il governo di Firenze ciò che ha in animo di eseguire: dal canto suo la Santa Sede non vuole e non può aderire a ciò che hanno stabilito di compiere ai suoi danni”.
Ci vogliono un po’ più di dieci ore per andare in treno da Firenze a Roma: la ferrovia fa un giro largo per Foligno e Terni. Il conte Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno, è partito ieri sera ed è arrivato questa mattina. Ha nella borsa due lettere che devono essere consegnate: una, del presidente del Consiglio Lanza, è per il cardinale segretario di Stato, Giacomo Antonelli, l’altra è di Vittorio Emanuele II, per Pio IX.
Appena entrato in territorio pontificio, si è naturalmente scosso da quel torpore che il treno procura sempre, anche nelle ore di più forte tensione. Ha spalancato gli occhi davanti a quel terreno potenzialmente nemico. Domani scriverà a Lanza: “Lungo la strada e pel grande spazio cui si estende la vista in queste immense campagne deserte d’alberi, non ci fu dato né di vedere soldati ed opere di difesa, né d’accorgerci d’entrare in un paese che si voglia difendere da un’invasione. Solo dopo di essere penetrati col convoglio nelle mura di Roma, abbiam veduto alcuni cannoni ed un posto di soldati presso di essi”. Ponza di San Martino è ricevuto alle sette di sera da Antonelli, che sta nel Palazzo Apostolico, al piano sopra dell’appartamento del papa: sono circa vent’anni che a Roma si fanno battute su chi, dei due, sta sopra e chi sotto. Il cardinale è noto al mondo, o almeno alla diplomazia, per il suo stile cortese e per la facondia, disturbata solo da un invincibile accento ciociaro. Tratterrà per oltre due ore il senatore, il quale però l’avverte subito di avere “ il triste incarico di prevenire il governo di Roma che l’ordine è già dato alle truppe italiane di entrare nel territorio pontificio”. Poco dopo aggiunge: “ Voi ci accuserete di essere spogliatori, ma se lei, Eminenza, avesse la bontà di ascoltarmi, vedrebbe che siamo spogliatori d’un genere affatto nuovo, poiché la prima e la più forte delle nostre preoccupazioni in questo momento è quella di mettere il papa in condizione di rimanere in Roma con tutte le sue istituzioni, libero e sicuro”. Un bel po’ del tempo appresso è speso dal senatore a illustrare le garanzie che il Regno d’Italia offre al papa: gli sarebbero conservate “ la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità”, una sovranità spirituale, beninteso, che però potrebbe restare “piena giurisdizione” sulla cosiddetta Città Leonina. In altre parole, il potere temporale del papa continuerebbe su quel fazzoletto di terra che sta fra il Vaticano e la riva destra del Tevere.
Antonelli ha ascoltato, cortesemente, anche se in qualche momento sembrava distrarsi. Adesso viene al punto: “Ma in nome di chi, signor conte, ella promette quanto mi ha esposto?”. “Ma in nome del governo del re!”. “Ebbene, mi permetta, anzitutto, che le richiami a memoria che detto governo è costituzionale. Ed ella ben sa che il ministero oggi al potere domani può mutare, e può succedergliene un altro di opposta indole”. Sarà un’altra ora di filippica del cardinale contro il sistema parlamentare. Poi Antonelli concluderà: “ Faccia il governo di Firenze ciò che ha in animo di eseguire: dal canto suo la Santa Sede non vuole e non può aderire a ciò che hanno stabilito di compiere ai suoi danni”.
Roma, 10 settembre 1870, sabato
"Beatissimo Padre, con affetto di Figlio, con lealtà di Re, con animo d’Italiano, m’indirizzo come ebbi a fare altre volte, al cuore di Vostra Santità. Un turbine pieno di pericoli minaccia l’Europa". Sono circa le dieci e mezza del mattino: Pio IX sta leggendo la lettera di Vittorio Emanuele che Gustavo Ponza di San Martino gli ha appena consegnato. Continua: " Giovandosi della guerra che desola il centro del Continente — è la guerra in Francia — il partito della rivoluzione cosmopolita cresce di baldanza e di audacia, e prepara specialmente in Italia e nelle Provincie Governate da Vostra Santità le ultime offese alla Monarchia, ed al Papato. Io so Beatissimo Padre che la Grandezza dell’animo Vostro non sarebbe mai minore della grandezza degli eventi. Ma io essendo Re Cattolico, e Re Italiano, e come tale custode e garante per disposizione della Divina Provvidenza e per volontà della nazione, dei destini di tutti gli Italiani, io sento il dovere di prendere in faccia all’Europa ed alla Cattolicità la responsabilità del mantenimento dell’ordine nella Penisola e della sicurezza della Santa Sede".
Credo che il papa abbia già fatto qualche smorfia, come alzare gli occhi al cielo, storcere la bocca, oppure passare dalla lettura silenziosa al soffio prorompente di tre o quattro parole: sulla sicurezza della Santa Sede, per esempio. Non so come sia messo a memoria, a settantotto anni suonati, ma andando avanti a leggere dovrebbe accorgersi di quanto gli argomenti del re somiglino a quelli usati da Cavour dieci anni fa, settembre 1860, per avvertire Antonelli dell’occupazione necessaria delle Marche e dell’Umbria. La ragione fondamentale dell’intervento è sempre l’ordine, la diga contro la rivoluzione: e sì che dei due più noti rivoluzionari italiani, uno, Garibaldi, è guardato a vista nella sua isola, perché non si sogni di andare in Francia a combattere i tedeschi, l’altro, Mazzini, è in carcere a Gaeta, dopo che il 13 agosto è stato arrestato a Palermo, dov’era andato appunto con la speranza d’iniziare la rivoluzione.
Una volta terminata la lettura, il papa, che è in fondo un marchigiano di Senigallia, gente dotata di un senso semplice, pratico, a volte perfino umile della vita, osserva al conte di San Martino che il re, invece di farla tanto lunga, avrebbe fatto meglio a dirgli semplicemente che era costretto a entrare nello Stato Pontificio. Poi ne dice un’altra, molto meno marchigiana: " Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in Roma non entrerete". Il conte è turbato: quando sta per uscire, invece di dirigersi verso la porta, fa per andare verso una finestra.
Gli sarà poi consegnata una lettera di risposta al re, nella quale Pio IX ha scritto: " Benedico Dio che ha permesso a V. M. di ricolmare di amarezza l’ultimo periodo della mia vita. Del resto io non posso ammettere certe richieste, né conformarmi a certi princìpi contenuti nella Sua lettera. Nuovamente invoco Dio e rimetto nelle sue mani la mia causa, che è tutta sua".
Terni, 11 settembre 1870, domenica
E’ il giorno degli annunci. La Gazzetta Ufficiale mette la notizia in prima pagina, ma in quarta colonna, quasi un trafiletto: " Sua Maestà il Re, a proposta del Consiglio dei Ministri, ordinava questa mane che le RR. truppe entrassero nelle Provincie Romane". Raffaele Cadorna, che da cinque giorni ha spostato il suo quartier generale da Spoleto a Terni, pubblica il proclama agli " Italiani delle Provincie Romane". Glielo hanno scritto due ministri, Emilio Visconti Venosta ( Esteri) e Cesare Correnti ( Pubblica Istruzione). Abbiate pazienza: un diario del 1870, per essere fedele agli originali, deve avere molte più maiuscole d’un diario del 2020.
Il proclama è ben fatto. Dice fra l’altro: " L’esercito, simbolo e prova della concordia e dell’unità nazionale, viene tra voi con affetto fraterno, per tutelare la sicurezza d’Italia e le vostre libertà. Voi saprete provare all’Europa come l’esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi col rispetto alla dignità ed all’autorità spirituale del Sommo Pontefice". Non dev’essere dispiaciuto a Cadorna che sia stato qualcun altro a scrivergli il proclama: è normale che sia il governo a occuparsi della forma in cui si presentano gli eventi. Molto meno normale è che da Firenze arrivino gli ordini più strani e contraddittori sul modo in cui debbano svolgersi le operazioni militari.
Il 6 settembre, per dirne una, Cadorna si è trovato a Terni un telegramma del ministro della Guerra Govone che gli chiedeva: " Mi dica in quanti giorni sarebbe possibile trasferire intero corpo d’armata a Orvieto". Un paio di divisioni erano già sulla riva sinistra del Tevere, fra Magliano Sabina e Passo Corese: se quella richiesta preludeva a un ordine, la marcia delle truppe doveva essere, invece che avanti, indietro. Cadorna rischiava che gli saltassero i nervi, ma intanto, a Firenze, si è capito che erano i nervi del generale Govone a essere saltati. E’ stato sostituito al ministero dal generale Ricotti, che il 7 ha telegrafato a Cadorna: " Anche per considerazioni di ordine politico, Governo del Re ha deliberato che ingresso truppe nostre nel territorio Papa, quando dovesse avvenire, fosse eseguito per Ponte Felice e Ponte Orte". Il Ponte Felice sembra di buon augurio nel nome, che d’altronde ha preso dal papa che l’ha fatto costruire, il terribile Sisto V, al secolo Felice Peretti. Supera il Tevere fra Magliano e Civita Castellana e segna da circa dieci anni il confine fra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio.
Cadorna sarebbe stato di gran lunga più contento se avesse potuto continuare la marcia seguendo la riva sinistra del fiume, perché è sempre stato convinto – con ragione – che è sulla parte orientale delle mura aureliane che Roma è più facilmente attaccabile. Però adesso si contenta: almeno, pensa, non c’è da tornare indietro. Quanto alle " considerazioni di ordine politico", forse non contengono altro che la volontà di dare ancora tempo al papa per qualche riflessione.
Civita Castellana, 12 settembre 1870, lunedì
Ieri sera, a Narni, Ugo Pesci, inviato del Fanfulla, e Carlo Arrivabene, corrispondente di alcuni giornali inglesi, oltre che deputato alla Camera di Firenze, sono riusciti a noleggiare una carrozzella con cocchiere e, dopo cena, sono andati all’inseguimento delle truppe di Cadorna.
Le hanno raggiunte prima dell’alba ai piani del Tevere sotto Magliano. Pesci, che è il più giovane dei due, si è esaltato, tanto che poi ha scritto: " Scendendo sempre, ad un risvolto della strada, a traverso gli umidi vapori della bassura nei quali siamo già immersi, brillano centinaia e centinaia di grandi fuochi accesi dalle nostre truppe. Ci fermiamo ad uno di quei fuochi. Sono le due e mezzo di notte, e pochi minuti dopo la brezza fresca porta al nostro orecchio gli accordi vivaci della sveglia suonata da una fanfara di bersaglieri, che le fanfare e le musiche degli altri corpi ripetono lontano e a mano a mano sempre più vicino. Nella nebbia fitta e nel buio della notte, fantasticamente interrotto ma non diradato dalle fiamme delle fascine accese e crepitanti, non si vede, ma si sente che tutti si muovono d’intorno a noi".
Viene quasi da pensare al campo degli achei sotto Troia: " Tutti ancora dormian per l’alta notte i guerrieri e gli dei".
Attorno alle quattro del mattino, prima un’avanguardia, poi tutta la dodicesima divisione passa il Ponte Felice. La prima fermata è poco dopo a Borghetto: è giunta voce che i cento zuavi che stanno nella Rocca Borgia di Civita abbiano intenzione di opporre resistenza.
Si va avanti, piano, mentre anche l’undicesima divisione supera il confine del Tevere. Sono le nove passate. Pesci scrive per l’articolo che potrà uscire solo dopodomani sul giornale: " Lo stato maggiore si arresta sopra un pendio che sta proprio dirimpetto al forte ad un 1500 metri di distanza. Io trovo una grossa pietra e vi pianto sopra la mia bottega ambulante. Intanto il 35° battaglione bersaglieri e il 39° e 40° di fanteria occupano la città e circondano il forte, mentre una batteria lo comincia a battere di fianco e una seconda lo batte di fronte, ambedue con grandissima precisione di tiro. Sul torrione del forte sventola la bandiera bianca e gialla con le chiavi d’oro. Siamo tanto presso che coll’aiuto del cannocchiale potremmo contare le tegole del tetto del forte, e le palle dei Remington vengono a cadere presso i nostri artiglieri. Perché la cosa non minacci di andar per le lunghe, si aggiunge una terza batteria alle due prime… Alle ore 10 e 10 minuti, un’ora precisa dopo la prima cannonata, sventola sul forte la bandiera bianca".
Il bilancio della breve battaglia sarà di sette feriti nell’esercito italiano – ma uno di questi morirà – tre feriti, o piuttosto contusi, fra i pontifici. Sugli altri fronti, che intanto si sono aperti, nulla di così grave è successo.
Lo stesso Pesci ci informa che " la divisione Ferrero ha passato il confine a Orte, nonostante il fuoco di… quattro gendarmi che si sono dati tosto alla fuga". A Sud il generale Angioletti, che ha passato il confine di Ceprano attorno alle dieci, sembra aver cominciato una specie di tranquilla passeggiata. Quanto a Bixio, è entrato già ieri, 11 settembre, in territorio pontificio e si è accampato a Montefiascone, abbandonata poco prima dagli zuavi: qualcuno può pensare che sia stato per la fama formidabile del genovese, ma l’ordine di ritirarsi è venuto da Roma.
Nepi, 13 settembre 1870, martedì
«Io vorrei poter correre a Firenze e narrare a tutti quello che vidi. Vorrei poter parlare coi ministri e dir loro: - Per la salute d’Italia, non vi fermate più, - o meglio: - non vi potete più fermare; vi giuro che è impossibile; se foste stati presenti questa sera allo spettacolo a cui io assistetti, direste anche voi: è impossibile. Parlo dell’entrata delle truppe in Nepi. Cominciarono a entrare alle 3, terminano adesso che son le 8».
Prima o poi riuscirò a capire quando, come e perché Edmondo De Amicis sia divenuto un grande scrittore: non ho mai avuto fretta. Un amico mi consiglia il libro del suo viaggio a Costantinopoli: magari leggo quello. Come inviato di guerra – ma sarà davvero guerra? – preferisco Ugo Pesci, che mi racconta: «Ho impiegato cinque buone ore a percorrere le 8 miglia romane che dividono Nepi da Civita Castellana. La strada era ingombra dal carreggio delle divisioni, dalla brigata d’artiglieria da posizione, comandata dal maggiore Pelloux, e dagli equipaggi da ponte. Tutti questi carri tenevano un’estensione di tre chilometri circa di strada».
Luigi Pelloux è quello che fra ventotto anni sarà presidente del Consiglio e fra una settimana aprirà la breccia nella mura aureliane a destra di Porta Pia.
Ricevuti i festeggiamenti di Nepi – «Bisogna dillo – raccoglie De Amicis dalle voci della folla – i soldati che ce portate voi sono gente educata» – la marcia deve continuare.
Cadorna ha ricevuto da Firenze l’ordine improvviso di accelerare. «In seguito deliberazione Consiglio di Guerra – dice il dispaccio del ministro Ricotti – prego portare grosso suo corpo a marcia forzata sotto Roma, per giungere al più tardi domattina».
È una follia, o meglio sono sessantacinque chilometri, come spiega Cadorna in una prima risposta. Continua lo scambio di messaggi, finché il comandante di corpo assicura: «Domani 14, alle 10 ant., giungerò con due divisioni, 11a e 12° a Posta della Storta».
La tredicesima divisione ha intanto occupato Viterbo: la guarnigione pontificia l’aveva già abbandonata. Al generale Angioletti si è presentata una delegazione di Frosinone per chiedergli di entrare in città: è stato fatto. Succede così un po’ dappertutto.
Anche Bixio ha preso Corneto, che sarebbe poi Tarquinia, senza combattere. Ci si chiede se alla fine ci sarà davvero da combattere.
L’ufficialissimo Giornale di Roma, tuttavia, pubblica oggi il proclama firmato ieri dal comandante dell’esercito pontificio, il generale Hermann Kanzler: «Romani! Si vuol tentare di compiere il più orrendo misfatto. Il Sommo Pontefice nel pacifico possesso della sua Capitale e delle poche provincie lasciate dall’usurpazione in suo dominio è minacciato senza alcuna ragione dalle truppe di un Re Cattolico. Roma pertanto è dichiarata con superiore autorizzazione in Istato d’assedio, e i pacifici ed onesti Cittadini sono invitati a rimanere tranquillamente alle case loro, onde la truppa possa invigilare sui pochi male intenzionati che cercassero turbare l’ordine ed attentare alla pubblica sicurezza».
La Storta, 14 settembre 1870, mercoledì
Cadorna, puntuale, era qui alle dieci di mattina, con l’undicesima divisione. La dodicesima è già più avanti: al Casale della Giustiniana. Basta salire su qualche altura e Roma si vede. Pesci, che è arrivato un po’ più tardi, si è incuriosito delle centinaia di soldati che «s’avviavano come attratti da una forza invisibile verso un rialzo di terra arida e scura a destra della strada». Dev’essere andato a vedere anche lui: «Fatti un centocinquanta passi, appariva loro sull’orizzonte, circonfuso nei gravi vapori, il profilo della cupola di San Pietro e una striscia violacea, senza contorni netti e ben definiti, risaltava sul rosso infuocato del tramonto».
Non tutti gli uomini a disposizione di Cadorna possono concedersi questi momenti contemplativi. Un drappello di lancieri di Novara è stato mandato in ricognizione dalla Giustiniana verso Monte Mario. Arrivati alla chiesa di Sant’Onofrio in campagna, com’è chiamata per distinguerla da quella del Gianicolo, i lancieri si sono trovati di fronte un avamposto di zuavi. Gli italiani sono andati alla carica, i pontifici hanno sparato. Il bilancio è di tre caduti fra gli zuavi, uno fra i lancieri. Non si sa che fine abbia fatto il sottotenente Carlo Alberto Crotti di Costigliole. Poi si viene a sapere che, o lui, o il cavallo, hanno messo troppo impeto nella carica, è rimasto isolato ed è stato fatto prigioniero. L’aspetto curioso dell’episodio sta nel fatto che il sottotenente dei lancieri è figlio del deputato più clericale — il più papista, direbbero gli inglesi — del Parlamento di Firenze, Edoardo Crotti di Costigliole.
Meno di due anni fa, novembre 1868, per fare un esempio, mentre la grande maggioranza dei suoi colleghi manifestava in Palazzo Vecchio lo sdegno per l’esecuzione a Roma di Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, lui, Edoardo Crotti, sosteneva: «Noi trattiamo una cosa che non ci appartiene, cioè la giustizia criminale di un altro paese; non abbiamo diritto di farlo». In nome di queste benemerenze paterne l’ufficiale italiano sarà trattato benissimo dal generale Kanzler, che lo inviterà anche a pranzo e poi, chiesto l’assenso del papa, lo lascerà tornare al suo reparto.
La domanda resta la stessa: ma sarà davvero guerra? Pure, ci sono stati altri morti. Ugo Pesci tornerà dopo anni alla visione di questo 14 settembre 1870 e scriverà nel suo libro Come siamo entrati in Roma qualcosa di coraggioso ed estremo: «Oh! Se a Pio IX fosse venuto in quei giorni uno degli slanci di amor di patria con i quali aveva incominciato ventiquattro anni prima il suo pontificato; se avesse fatto spalancare le porte di Roma ai soldati d’Italia, quei 35.000 giovanotti robusti, pieni d’ardire e di vita, gli si sarebbero andati a prosternare dinanzi, nella maestosa penombra della Basilica Vaticana… e la questione romana sarebbe bell’e finita per sempre».
Roma, 15 settembre 1870, giovedì
Sono da poco passate le due del pomeriggio, quando si presenta a Ponte Milvio il tenente colonnello Gaetano Caccialupi, dello stato maggiore di Cadorna. Spiega alle sentinelle pontificie che deve parlare con il generale Kanzler e consegnargli una lettera del suo comandante. La lettera di Cadorna dice: "A nome di S. M. il Re d’Italia, il sottoscritto domanda l’ingresso della truppa italiana in Roma, onde occupare militarmente la città. La missione delle RR. truppe è puramente conservatrice, e diretta a tutelare l’ordine. Gli ufficiali e sott’ufficiali indigeni sarebbero conservati nei loro gradi. Le truppe straniere debbono essere licenziate, concedendo loro il rimpatrio colla conservazione di tutti i diritti regolarmente stipulati col Governo pontificio". Caccialupi viene bendato e fatto salire su una carrozza chiusa che sarà scortata da un drappello di dragoni fino alla piazza della Pilotta, dov’è il comando di Kanzler. Il colloquio fra i due ufficiali non dura molto, poco più del tempo che occorre al generale pontificio per scrivere la risposta: "Sua Santità desidera di veder Roma occupata dalle proprie sue truppe, e non da quelle di altri Sovrani. Pertanto ho l’onore di rispondere che sono risoluto di fare resistenza coi mezzi che stanno a mia disposizione, come m’impone l’onore e il dovere".
Un’altra trattativa, per un fine simile – la resa – ma di stile tutto diverso, si svolge più o meno nelle stesse ore a Civitavecchia: la città è chiusa fra la seconda divisione di Bixio e la squadra navale al comando del vice ammiraglio Del Carretto. Lì, come a Roma, l’incognita principale sta nelle intenzioni dei soldati e soprattutto degli ufficiali al servizio del papa. Si sa, o almeno si ripete da giorni e settimane, che gli elementi indigeni – che poi vuol dire italiani, come gli assedianti – si adatterebbero bene a una rapida pacificazione, al contrario gli stranieri – e specialmente gli zuavi – sarebbero motivati alla resistenza come impone, per dirla con Kanzler, "l’onore e il dovere". La parte preponderante del presidio di Civitavecchia è costituita proprio dagli zuavi.
Nino Bixio ha mandato a parlamentare il capitano Baldassarre Orero con il tenente colonnello Giuseppe Serra, che in sé e per sé non sarebbe neppure lui indigeno. E’ nato José Serra, a Granada, ed è arrivato in Italia nel 1849 con il corpo di spedizione spagnolo venuto a combattere la Repubblica Romana. Poi è rimasto, ha preso moglie a Velletri, e ha fatto carriera nell’esercito pontificio fino a comandare la piazza di Civitavecchia. Si è italianizzato, insomma: che non sempre, o meglio quasi mai, significa diventare più prudenti. Ragionevoli, magari, sì. Serra ha chiesto ventiquattr’ore per rispondere. Orero torna da Bixio per dirglielo. Il generale ne concede dodici, " non una di più" e aggiunge: "Domattina si chiederà dove fu Civitavecchia".
Civitavecchia, 16 settembre 1870, venerdì
Alle sette di questa mattina la corazzata italiana Terribile è entrata in porto. Circa tre ore dopo le truppe della seconda divisione hanno iniziato il loro ingresso in città. Ieri – ricorderete – Bixio aveva detto: «Domattina si chiederà dove fu Civitavecchia».
Poi ha passato una notte inquieta, in cui, testimone il suo compagno di sempre Giuseppe Guerzoni, andava ripetendo: « È pur doloroso tirare su una città italiana; no: voglio risparmiarla; farò di tutto per non tirare su di lei». Finalmente è apparsa la bandiera bianca sul Forte Michelangelo.
Guerzoni, che sarà il miglior biografo di Garibaldi – non se ne abbiano a male gli altri – e scriverà anche un’appassionata Vita di Nino Bixio, è convinto che l’apparente durezza del suo comandante e amico ha funzionato a meraviglia: « E tale era l’uomo che molti si figureranno ancora oggi per una specie di pelle rossa, sitibonda di stragi e di sangue, sfuggita per caso in mezzo alla civiltà europea! Anzi, se Civitavecchia fu presa senza colpo ferire, la nomea d’Attila novello, appioppata per forza a Nino Bixio, non c’entrò per poco! Ed egli certo non doveva far nulla per smentirla, anzi studiare ogni arte per accrescerla, poiché l’atterrire un nemico già diviso e titubante era la miglior arme per affrettarne la resa».
L’esperimento, chiamiamolo così, si poteva fare ed è riuscito a Civitavecchia. E’ ovvio che a Roma non si può applicare lo stesso schema: alla sede del Papa si devono portare assicurazioni, garanzie, argomenti di convinzione, non minacce.
Così il generale Cadorna non può che ripetere il tentativo già fatto ieri. Ha un argomento in più – questo è vero – ed è la presa di Civitavecchia, che era l’ultima, sia pure solo ipotetica, via di comunicazione fra lo Stato Pontificio e il resto del mondo. Cadorna lo usa e in una nuova lettera a Kanzler dice: « Dopo questo fatto, vieppiù compreso come sono dell’inutilità di ulteriore spargimento di sangue, specialmente considerando le forze dell’attacco rispetto a quelle della difesa, compreso dai sensi di umanità a cui l’E. V. è tanto meno estranea, vicina qual è alla Santità del Sommo Pontefice, non stimo inutile rinnovarle la domanda di non voler opporre resistenza alla occupazione militare di Roma».
La lettera stavolta è affidata a un generale, Orlando Carchidio, che, come è successo ieri per Caccialupi, arriva bendato all’ufficio di Kanzler alla Pilotta. Le parole scritte da Cadorna hanno un pessimo effetto sul comandante pontificio. La sua risposta è indignata. « Ella – scrive a Cadorna – fa appello ai sentimenti di umanità, che certamente a niuno stanno più a cuore che a coloro i quali hanno la felicità di servire la Santa Sede, ma non siamo noi che abbiamo in qualche modo provocato il sacrilego attacco di cui siamo vittime » .
Il più irritato di tutti, è Orlando Carchidio, quando, a notte fatta, torna al quartiere generale della Storta: « Esser preso in giro da quei monsignori e canonici in veste militare!... non so proprio come sono riuscito a non scattare, a trattenere la collera che mi soffocava!».
Grottarossa, 17 settembre 1870, sabato
È il giorno più lungo di Raffaele Cadorna, anche perché è quello del passaggio del Tevere e le operazioni, piuttosto complicate, sono state iniziate già ieri. Dalla via Cassia, per strade che sono tutt’altro che strade, si è passati alla Flaminia, fino a questo posto che adesso è non più di un’osteria, ma può chiamarsi anche Saxa Rubra, in ricordo della battaglia che Costantino vinse contro Massenzio nell’anno 312. Porterà bene la memoria? Roma è straordinaria: non fai a tempo a pensare a una battaglia, che subito compare una croce. I primi a partire ieri sera sono stati dodici battaglioni di bersaglieri e la brigata del genio. Sei battaglioni sono stati subito trasferiti con i pontoni alla riva sinistra del fiume, per prenderne il controllo. « I bersaglieri — ha ordinato il generale — arresteranno tutti i borghesi che fossero presenti all’operazione, per impedirne la rivelazione » . Gira voce che possa avercela soprattutto con i giornalisti.
Poi è cominciata la costruzione del ponte su barche, che è durata sette ore. Il passaggio delle truppe sul Tevere ha avuto inizio alle cinque di stamattina. Cadorna, che è arrivato alle otto — ci ha messo quattro ore per venire dalla Storta — adesso ammira soddisfatto la processione lenta e ordinata dei suoi soldati. Pensa che alla fine tutte le cose si vanno mettendo a posto. Potrà attaccare Roma come e dove voleva: la parte orientale delle mura, che è la più debole, oltre che una delle più delle più lontane dal Vaticano. Cadorna è credente, non bigotto, ma cattolico: e tiene a farlo sapere. È passata per prima la tredicesima divisione. Ora tocca alla dodicesima. Il generale è lì che guarda le truppe, quando gli si presenta un bel signore elegante e barbuto: è il conte Harry von Arnim, ambasciatore di Prussia presso la Santa Sede. Ecco un imprevisto che allunga ulteriormente il giorno. Arnim chiede al generale ventiquattr’ore di tempo per tentare di convincere Pio IX a rinunciare a qualsiasi tentativo di resistenza. Cadorna, che, ripeto, è credente, e, per quanto militare, non vedrebbe probabilmente minore gloria nel poter entrare in Roma senza combattere, non può far altro che concedere al diplomatico il tempo richiesto, tanto più che è minore di quello necessario ad arrivare in posizione d’attacco e che lo stesso governo di Firenze ha sempre indicato la conquista pacifica come preferita. Saranno dunque ventiquattr’ore di cessate il fuoco, nelle quali però l’esercito italiano continuerà l’avvicinamento.
Intanto questo sabato 17 settembre rischia di divenire il giorno più lungo anche per il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta. Che ci fa Arnim a Grottarossa? Chi lo ha mandato? Cosa cercano i tedeschi? Dopo aver fatto fuori Napoleone III, ci pensa Bismarck, adesso, a proteggere il papa?
Roma, 18 settembre 1870, domenica
È la giornata ideale per rubare qualcosa dal diario di Nicola Roncalli, che a Roma c’è davvero e oggi sembra vederla tutta.
" Le truppe italiane – dice – che si vedevano al di là di ponte Molle, ripiegarono verso porta Salara e porta Pia, dove sembra si siano occupati nei lavori di approccio per battere in breccia le mura di quei lati, che sono le più deboli e che non hanno monumenti prossimi da restare danneggiati. Quindi molti speravano che l’operazione fosse di breve durata e potessero entrare in giornata. Altri poi del partito clericale, dalle mosse della armata, trassero argomento per far credere che aveva avuto l’ordine di ritirarsi in seguito a proteste delle potenze".
Roncalli ci segnala dunque due partiti presenti in Roma: quello che spera imminente l’ingresso dei soldati di Vittorio Emanuele e l’altro che, dando magari retta al tentativo di mediazione dell’ambasciatore prussiano Arnim, crede che l’esercito italiano sia già prossimo a una ritirata. C’è un terzo partito, ovviamente, ed è forse maggioritario: è quello che semplicemente aspetta e, qualunque cosa accada, non crede che debba essere la fine del mondo e tanto meno di Roma.
Nicola Roncalli continua: " S’intesero alcuni colpi di cannone che furono tirati dai papalini per molestare i lavori dell’inimico. Si raddoppiarono barricate e si riunirono alle parti minacciate maggiori rinforzi. Intanto la popolazione va tutta curiosando con gioia, ed il concorso di carrozze dovunque, e di passeggieri, è veramente insolito. Oggi, verso porta Pia, si vedeva un passeggio animatissimo con qualche vescovo, frati e perfino Gesuiti con volto tranquillissimo".
A Cadorna è arrivato un biglietto di Harry von Arnim: "Ho il dispiacere – dice – di dover informare Vostra Eccellenza, che il passo di cui ho avuto l’onore d’intrattenervi ieri non è riuscito". Con tutta la sua religione, Cadorna non può negare il sollievo per questa notizia. Si può procedere, dunque, si deve procedere. Le divisioni sono ai posti assegnati: l’undicesima di Enrico Cosenz è al Ponte Salario, la dodicesima di Mazè de la Roche al Ponte Nomentano, la tredicesima di Ferrero poco più giù di Ponte Mammolo. Un’avanguardia di bersaglieri ha già preso posizione a Sant’Agnese fuori le mura: questa notizia, se gli è arrivata, dev’essere molto dispiaciuta a Pio IX, il quale è convinto che quindici anni fa in quella chiesa, o più precisamente nella sua canonica, solo un miracolo poteva avere salvato la sua vita e molte altre nel crollo disastroso di un pavimento.
Al Sud Diego Angioletti ha un po’ forzato i tempi della trionfale passeggiata nelle provincie già pontificie di Marittima e Campagna e, alle tre del pomeriggio, ha portato la nona divisione al Casale di Roma Vecchia, in quel pezzo di campagna romana, che all’inizio del terzo millennio si chiamerà Parco degli Acquedotti. Quanto all’Ovest, il comandante in capo non sa esattamente dove sia Bixio. O forse preferisce non saperlo.
Roma, 19 settembre 1870, lunedì
«Ora che si va a consumare un gran sacrilegio, e la più enorme ingiustizia, e la truppa di un Re Cattolico senza provocazione, anzi senza nemmeno l’apparenza di qualunque motivo cinge di assedio la Capitale dell’Orbe Cattolico, sento in primo luogo il bisogno di ringraziare Lei, Sig. Generale, e tutta la Truppa Nostra della generosa condotta finora tenuta, dell’affezione mostrata alla S. Sede, e della volontà di consecrarsi interamente alla difesa di questa Metropoli».
La lettera che Pio IX scrive al generale Kanzler non è, ovviamente, solo per ringraziarlo. Il papa, che è ancora il sovrano temporale, deve dare al comandante dell’esercito pontificio le istruzioni per la battaglia che ci si aspetta per domani. E poco più giù Papa Mastai scrive: «In quanto poi alla durata della difesa sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta atta a constatare la violenza, e nulla più: cioè di aprire trattative per la resa appena aperta le breccia».
Pare che cinque giorni fa, 14 settembre, il cardinale segretario di Stato Giacomo Antonelli abbia già consegnato a Kanzler un’altra lettera del papa, molto simile a questa, ma non identica. La differenza maggiore era nel momento indicato per trattare la resa: «Ai primi colpi di cannone», aveva scritto allora e anche il meno esperto di arte militare capisce che non bastano pochi colpi per aprire una breccia.
Pare, ancora, che questa variazione sia il risultato delle pressioni fatte dagli alti ufficiali dell’esercito pontificio e da Kanzler per primo. A distanza di più di un secolo il più grande biografo di Pio IX, che sarà il gesuita Giacomo Martina, ne tirerà un giudizio tutt’altro che agiografico: «Kanzler era soddisfatto, e il papa non pensò alle vite umane, che un’altra decisione avrebbe salvato».
Nel pomeriggio il papa è andato al Laterano. Ha pregato nella cattedrale di San Giovanni e poi anche nella cappella detta del Sancta Sanctorum, dove è arrivato inginocchiandosi a ognuno dei ventotto scalini della Scala Santa, che secondo la tradizione sono gli stessi saliti da Gesù per comparire davanti a Pilato. Giovanni Maria Mastai Ferretti è un uomo di settantotto anni, che non è mai stato in grandissima salute. Monsignor Giuseppe de’ Bisogno, suo cameriere segreto, lo ha aiutato a inginocchiarsi e a rialzarsi a ogni scalino. Arrivato su, il papa ha pronunciato una preghiera di cui si tramanderanno versioni un po’ diverse.
Certamente alla fine ha detto: «Ti prego, abbi pietà del tuo popolo, della Chiesa, la tua amata sposa; sospendi il tuo sdegno, la tua giusta collera; non permettere a mani infami di venire a profanare la tua dimora. Perdona al mio popolo, che è il tuo. E se serve una vittima, prendi il tuo indegno servitore: non ho vissuto abbastanza? Pietà, mio Dio, pietà. Ma qualunque cosa avvenga, sia fatta la tua volontà». Si potrebbe pensare che speri di essere l’unico caduto della battaglia: ma questa sarebbe forse superbia.
Uscito dalla Scala Santa è andato incontro al colonnello Athanase de Charette e ai suoi zuavi assegnati alla difesa di Porta San Giovanni. Li benedice, poi, rivolto a Charette: «Dio mio, sono davvero poco numerosi… riesco appena a distinguerli». Arriva da non troppo lontano, dalla parte di Porta Maggiore e della ferrovia che va a Termini, l’eco di qualche sparo.
Roma 20 settembre 1870, martedì
Una diversione”, niente di più. Bixio ha subito risposto: “ Parto immediatamente per recarmi sotto Roma, ove mi troverò questa notte. Domattina all’alba concorrerò attacco”. Forse stamane sono stati proprio i suoi cannoni a svegliare Pio IX, sempre che prima dormisse.
Alle sette e mezza il papa ha detto messa, poi ne ha ascoltata un’altra. Sono quasi le nove quando entra nella biblioteca privata, dove lo attendono gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. “Il corpo diplomatico – dice – si è riunito un’altra volta attorno a me in una circostanza simile. Era al Quirinale”. Era più di vent’anni prima: il 16 novembre del 1848, il giorno dopo l’assassinio alla Cancelleria del suo ministro Pellegrino Rossi. Non si è preparato un discorso, divaga. Accenna a Vittorio Emanuele: “Non so se ha ricevuto la mia lettera”. Dopo qualche tuono più vicino parla di Bixio: “Quando era repubblicano, aveva concepito il progetto di gettare nel Tevere, quando fosse entrato a Roma, il papa e i cardinali… E’ lì, alla porta San Pancrazio: questa parte è la più esposta”.
Sono quasi le nove e mezza quando si presenta il tenente colonnello Filippo di Carpegna, uno dei principali collaboratori del generale Kanzler. Gli ambasciatori escono, ma dopo pochissimo vengono richiamati: “Ho appena dato l’ordine di capitolare” annuncia il papa. E spiega: “Non ci si potrebbe più difendere senza spargere molto sangue, ciò che non voglio”. La breccia, nel tratto di mura fra Porta Pia e Porta Salaria, è aperta dalle nove e, secondo le istruzioni date a Kanzler, doveva già essere quello il momento in cui chiedere la capitolazione. Tuttavia si sente ancora sparare.
Papa Mastai congeda gli ambasciatori, si siede al tavolo e scrive: “Il tre non oltrepassa il mio primiero”. Poi su un’altra riga: “E’ l’altro molto vasto e molto infido”. Infine, terza riga: “Che spesso fa provar l’intero”. E’ una sciarada, uno dei suoi passatempi preferiti. La parola da indovinare, che era tremare, gliela aveva suggerita Bixio con le sue cannonate: tremavano le finestre a ogni tuono. Si poteva scomporre solo in due parole: tre e mare. A questo gli era servito il ricordo delle Baleari, di un’avventura vissuta in gioventù.
La bandiera bianca è comparsa su San Pietro e su Castel Sant’Angelo, però ancora si combatte a Porta Pia e sulla breccia aperta poco più a destra e nel giardino, subito dietro, della villa che fu di Paolina Bonaparte. E’ lì che si ha la maggior parte dei caduti d’una battaglia che, fermata qualche minuto prima, avrebbe avuto un bilancio molto più leggero. Fra poco ci sarà uno scambio di accuse, che continuerà nel tempo e riempirà volumi: i pontifici diranno che gli italiani hanno ignorato la bandiera bianca, gli altri ribatteranno che gli zuavi, anche dopo averla esposta, hanno continuato a sparare. E’ possibile che la verità stia in mezzo. Una cosa è certa: finché si è trattato di artiglieria, la superiorità dell’esercito italiano era tale, che i pochi cannoni sistemati dai pontifici sui terrapieni delle porte sono stati neutralizzati quasi subito. Altrettanto certo è che quando, dopo le dieci, gli assalitori hanno cominciato a salire per la breccia, i difensori non hanno dovuto far altro che sparare nel mucchio: e sarebbe stato proprio difficile non prendere qualcuno.
Le truppe di Cadorna entrano in città, appresso a loro i giornalisti e gli esuli romani che ritornano. L’inviato Ugo Pesci all’una meno un quarto dice: “Vi scrivo in un caffè di piazza San Bernardo, ove ho notizie di perdite pur troppo dolorose per noi. Il maggiore Pagliari, comandante il 34° dei bersaglieri, è morto sulla breccia”. Dentro Porta Pia Nino Costa, il pittore che ha lasciato Roma nel 1867, si è visto morire accanto il tenente Augusto Valenziani, romano anche lui, e già combattente appena diciassettenne per la Repubblica del 1849. Non era poi così vero che i romani avevano solo sciroppo nelle vene. Oggi sembrano averci il fuoco. Nicola Roncalli, che è alle ultime pagine del suo diario romano, scrive: “Mentre alcune compagnie d’italiani difilavano a piazza Colonna, altre di zuavi, prigionieri, tuttora armati, provenienti dal Popolo si venivano a consegnare al comando della Piazza. Quelli erano accolti da grida entusiastiche, questi da fischi, imprecazioni ed insulti. Maggiore però, e veramente pieno di apprensione, fu lo spettacolo nelle ore pomeridiane, allorché giunsero a piazza Colonna tutte le altre compagnie di zuavi prigionieri, disarmate, in mezzo ai bersaglieri italiani. Grida: Morte agli zuavi, cani, assassini, infami, fischi, urli”. Interviene il tenente colonnello dei bersaglieri Macedonio Pinelli che a brutto muso dice al popolo di Roma: “Dovevate affrontarli quando erano armati!”.
La capitolazione di resa è ovviamente già firmata. Cadorna, che non si è mai mosso dalla Villa Albani, dove aveva posto il suo quartiere generale, ha ricevuto prima il colonnello Carpegna, poi Arnim e gli altri ambasciatori, e con molto garbo ha spiegato a tutti che poteva e doveva trattare solo con Kanzler, il quale finalmente è arrivato. Sono in tutto sei articoli che prevedono gli onori militari per l’esercito sconfitto, la partenza da Roma domani, il rimpatrio degli stranieri e implicitamente non esclude l’eventuale reimpiego delle “truppe indigene” nell’esercito italiano: tutte le cose che si scrivono insomma in questi casi. Da tenere d’occhio per i prossimi giorni c’è solo il primo articolo, che dice: “La città di Roma, tranne la parte che è limitata al sud dai bastioni di Santo Spirito, e che comprende il monte Vaticano e Castel Sant’Angelo costituenti la Città Leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini da polvere, tutti gli oggetti di spettanza governativa, saranno consegnati alle truppe di S. M. il Re d’Italia”. Il corsivo è mio, ma l’eccezione è ancora nella testa del governo di Firenze.
Roma, 21 settembre 1870, mercoledì
L’esercito sconfitto ha passato la notte in piazza San Pietro. Ugo Pesci, che degli inviati è sempre il più curioso, si è alzato presto per andare a vedere: “ Tutt’intorno alla parte della piazza compresa dentro i porticati del Bernini, erano schierati dai 6000 ai 7000 uomini di tutte le armi. Una batteria da campagna di sei pezzi, stava davanti all’obelisco con la fronte verso la città”. Dopo che ha sentito tre tiri di fucile fischiargli non troppo lontano, si è trovato d’accordo col vetturino sull’idea di tornare a Ponte Sant’Angelo e alla riva sinistra del Tevere. Roma ha ancora i nervi tesi: ed è abbastanza normale.
Più tardi Pio IX si è affacciato alla finestra e ha benedetto i suoi soldati. Una corrispondenza della Nazione racconta e commenta: “ Grida furibonde, berretti in aria, e lo sparo di forse cinquecento fucili hanno risposto alla benedizione papale. Questo non è l’ultimo atto di frenesia che dobbiamo attendere da Pio IX. Innanzi di morire paleserà tutta intiera la sua indole. Vedete: il disfacimento del suo regno, il sangue versato, la pubblica desolazione, appena gli hanno turbato i nervi, e bastò un solo bagno ai piedi per ristabilirne l’equilibrio”. Pediluvio a parte, ci può anche essere del vero, ma hanno visto tutti che il papa era commosso e quasi non è riuscito a finire la formula della benedizione. I soldati pontifici sono poi saliti da Porta Cavalleggeri a Porta San Pancrazio. Lì li attendevano gli italiani con Cadorna e altri due generali, Gustavo Mazè de la Roche e, un po’ discosto, Nino Bixio. L’incidente è avvenuto quando stavano sfilando i volontari della Legione d’Antibes, creata da Napoleone III nel 1866 per metterla al servizio del papa. “ Venivano – racconterà poi Giuseppe Guerzoni – col sigaro in bocca, col berretto di traverso, col cappotto sbottonato, co’ ceffi torvi e ringhiosi, colle labbra livide a avvinazzate, cogl’occhi iniettati di sangue, e giunti in faccia al generale brandivano minacciosamente i lor fucili e gli ufficiali le lor spade”. Il generale era appunto Bixio, accanto al quale stava Guerzoni. Accanto a grida poco confutabili, come Vive la France o Vive Pie IX, i legionari ne lanciavano altre più offensive o minacciose, come À bas la canaille e Au revoir bientôt. Bixio che, – si sa – è un caratteraccio, fa una scenata gridando che “ bisognava battersi quand’era tempo”. Ne nascerà un’altra lite fra lui e Cadorna, che fino allora non s’era accorto di nulla. Era distratto da Harry von Arnim, l’ambasciatore prussiano, venuto su in carrozza dal Vaticano per segnalare che piazza San Pietro, appena sgomberata dai pontifici, era stata invasa da un popolo tendenzialmente tumultuoso, che qualche baruffa era già avvenuta e insomma era urgente che le truppe italiane entrassero nella Città Leonina. Cadorna ha chiesto ad Arnim una richiesta scritta del papa, o del cardinale Antonelli o del generale Kanzler. Il diplomatico è andato a prenderla in Vaticano e gliel’ha portata, firmata da Kanzler: “ La Santità di Nostro Signore – ha scritto – mi incarica significarle, che desidera che ella prenda disposizioni energiche ed efficaci per la tutela del Vaticano”.
Roma, 22 settembre 1870, giovedì
La Capitale, il nuovo quotidiano che Raffaele Sonzogno ha fatto uscire appena un giorno dopo il suo arrivo a Roma, dava ieri sera questo annuncio: "Sappiamo che un’adunanza di Cittadini, la maggior parte membri del Circolo popolare romano, han deliberato di pubblicare domani un manifesto al Popolo per radunarlo nel Mausoleo di Augusto per eleggere o sanzionare con atto legale la nomina dei membri della Giunta Municipale Provvisoria della nostra città, irregolarmente eletta jeri in Campidoglio". L’elezione era stata tanto irregolare che in pratica non s’era neppure fatta e a guidare il municipio si era trovato per qualche ora il pittore Nino Costa. L’annuncio della Capitale conteneva in ogni modo un errore: aveva dato per indirizzo il Mausoleo di Augusto, più noto ormai come anfiteatro Corea, mentre il comizio, alle tre di questo pomeriggio, si tiene niente meno che al Colosseo. Stiamo per assistere a un tentativo, magari un po’ maldestro, di democrazia diretta.
Sono presenti migliaia di romani: Cadorna li valuterà poi a circa novemila. De Amicis li ha visti arrivare: "Andavano a otto a otto, a dieci a dieci, allineati e stretti come soldati, levando tratto tratto altissime grida". Presiede l’assemblea Mattia Montecchi, il triunviro della Repubblica del 1849, che solo ieri è tornato a Roma. "Noi — spiega — avremmo voluto che il popolo facesse l’elezione in modo regolare, colle schede, coi voti… Ma non v’era più tempo. Abbiamo dunque pensato di rivolgerci direttamente al popolo romano e di facilitargli l’opera preparando un elenco di cittadini appartenenti a tutte le classi della società e a tutti i partiti politici. Ora, vedete anche voi che sarebbe impossibile aprire una discussione sopra ciascuno dei nomi. Bisognerà dunque limitarsi ad approvare o disapprovare l’elenco nel suo complesso".
Montecchi è in piedi sul pulpito, che sta in cerchio con le quattordici edicole della Via Crucis e fino adesso è servito solo alle prediche di tutti i venerdì. Ora detta al popolo il sistema di voto: " Chi intenderà di approvare l’elenco alzerà il cappello, chi non vorrà approvarlo terrà il cappello in capo". Ma ce l’hanno tutti, il cappello? mi chiedo. Comincia a leggere i nomi. Il primo è il suo e passa di volata. I fischi partono quando si sentono citati alcuni noti rappresentanti del vecchio Comitato nazionale romano, che ha trascorso l’ultimo decennio a cercare, più che altro, di convincere i concittadini a stare quieti e avere pazienza. Passano molti nobili, a cominciare dal più illustre, Michelangelo Caetani di Sermoneta. Esplode l’ira ai nomi dei mercanti di campagna, che sono la classe più ricca o la più arricchita di recente: "Non li volemo!" grida la folla. Alla fine l’elenco, tutto, si dà per approvato. Si è presa — Montecchi l’ha detto — una scorciatoia. D’altronde neanche venti giorni fa, all’Hôtel de Ville di Parigi, non era molto diversa da questa la strada che si è presa per proclamare la Terza Repubblica francese e fra un po’ più di un secolo, una volta inventato il computer, qualcuno sosterrà che la democrazia è nella rete e con qualche altro progresso si potrà anche fare a meno del Parlamento.
Roma, 23 settembre 1870, venerdì — La cosa più straordinaria è che delle tre pagine di cui sono fatti i giornali italiani — la quarta è in genere per la pubblicità — una buona metà continua a essere occupata dalla guerra fra tedeschi e francesi. Non c’è dubbio che quella sia la vicenda maggiore e più drammatica che si svolge in Europa, un altro dubbio è tuttavia legittimo: che al governo di Firenze, e spesso anche alla stampa, non dispiaccia che sugli eventi nostrani si mantenga una qualche specie di sordina. Faccio un esempio. L’opinione, che si stampa a Firenze, esce oggi con un editoriale intitolato "La pacificazione interna". Le prime tre righe, attribuibili come tutto il resto al direttore Giacomo Dina, dicono: " L’occupazione di Roma compiutasi quasi senza incontrare resistenza compie decisamente il programma degli italiani". Tre giorni fa, 20 settembre, il suo amico Quintino Sella, ministro delle Finanze, gli ha scritto una lettera piuttosto divertente: " Bada bene di annunciare che la resistenza fu solo pro forma, giacché dopo quattro ore di cannoneggiamento contro le mura si alzò bandiera bianca per ordine del Papa, e perdite insignificanti. I militari parleranno di slancio delle truppe eccetera. Ma tu che capisci il latino e stai per diventare papista saprai dire untuosamente che non ci fu resistenza effettiva".
La Gazzetta del popolo, che adesso si stampa in Roma, annuncia che il generale Cadorna ha nominato una giunta municipale di diciotto persone, molte di meno delle quaranta e passa acclamate ieri al comizio del Colosseo. Il presidente è sempre il duca di Sermoneta Michelangelo Caetani, anche gli altri nomi erano già presenti nell’altra lista. Cadorna ha depennato gli uomini le cui opinioni politiche risultavano più dubbie o pericolose al governo, Mattia Montecchi, per esempio, o Nino Costa, e ancora democratici più o meno dichiarati, rivoluzionari di carattere, se non di convinzione, e mazziniani non pentiti. Il giornale — e probabilmente il suo direttore Edoardo Arbib — si dice dell’avviso che il popolo romano " non vagheggi punto né le declamazioni, né le ciancie di coloro che vorrebbero gettarlo in braccio ad inutili commozioni, o spingerlo in una via falsa e pericolosa".
Si ripresenta puntuale una questione: il Risorgimento è o non è la rivoluzione italiana? Ieri Raffaele Sonzogno scriveva sulla Capitale: " L’Italia ha data l’indipendenza a Roma, Roma darà la libertà all’Italia". Oggi, a Milano, Il Secolo, che è il giornale edito dal fratello Edoardo, pone il problema della detenzione di Mazzini nella fortezza di Gaeta: " O Italiani, o ministri del regno, come potrete voi ringraziare gli Dei di tanta fortuna, mentre lasciate in una prigione chi vi additò la via del trionfo, chi primo vi fece palpitare il cuore ai nomi di Italia e Roma, di patria e libertà?".
Sarà caso, sarà forse fortuna: c’è chi intanto si diverte. Carlo Lorenzini, che non ha ancora inventato Pinocchio, ma già si firma Collodi sulla prima pagina del Fanfulla, immagina di avere un dialogo con un monsignore. Non è più che uno scherzo, ma il finale guarda lontano: "Creda, monsignore, che il Governo italiano non è così brutto, né così logico, come lo dipingono: se fa il rigoroso e qualche volta il prepotente, lo fa soltanto coi propri amici. E’ questo l’unico modo, secondo lui, per cattivarsi le simpatie universali ed i voti della maggioranza".
Firenze, 24 settembre 1870, sabato — Già da tempo nel governo si ragiona di mandare a Roma l’ex presidente del Consiglio Alfonso La Marmora come luogotenente del re. La Marmora, però, non ha nessuna fretta: vorrebbe sapere prima le intenzioni di Vittorio Emanuele circa i tempi del trasferimento della capitale, anche perché spera ancora in una residua possibilità di conciliazione con il Vaticano. Il Consiglio dei ministri, in ogni modo, conclude che non si debbano fare cambiamenti prima del plebiscito che deve sancire l’adesione delle nuove provincie — Roma, Civitavecchia, Viterbo, Velletri e Frosinone — al regno. Il governo ha dunque deciso " di mantenere al generale Cadorna sino all’accettazione del plebiscito la missione di tutelare l’ordine pubblico e di prevenire i disordini in Roma e sua Provincia".
" A quest’effetto — continua la deliberazione del Consiglio dei ministri — egli è investito de’ pieni poteri, e potrà quindi prendere tutte quelle misure che crederà necessarie ed opportune secondo i casi. Nessun giornale potrà essere pubblicato senza la sua autorizzazione; potrà sopprimere quelli che sieno in corso di stampa, quando si permettano offese ed oltraggi contro la religione e i suoi ministri, contro le istituzioni nazionali, provocazioni al disordine ed a commettere reati contro le persone e le proprietà. Non dovrà permettere pubbliche riunioni in luoghi aperti, qualora le creda pericolose all’ordine pubblico. Potrà far condurre alla frontiera qualunque individuo non romano che si abbandoni a pericolose agitazioni, ancorché sia deputato".
Ora, io non dico che la situazione a Roma sia meno che delicatissima: sfido chiunque, tuttavia, a convincermi che questa deliberazione del governo italiano possa essere considerata un capolavoro di liberalismo. Liberalismo, dico, non democrazia: per quella occorrerà ancora un’infinità di tempo. Raffaele Cadorna, d’altronde, è un brav’uomo, prudente, intelligente, anche equilibrato. Stamane, quando ha insediato in Campidoglio la giunta creata, diciamo così, motu proprio, è riuscito quasi a volare alto e forse un po’ troppo lontano.
" Chi è che non si senta forzato ad esclamare: Dio ha benedetto veramente l’Italia! E non vorrà tornare a benedirla il Pontefice Sommo? Il Capo Augusto della Cattolicità troverà in noi l’ossequio il più leale, la venerazione più profonda, il rispetto più geloso alla gerarchia del suo clero, le guarentigie più sicure all’esercizio della suprema sua potestà spirituale! Davanti all’eloquenza dei fatti cadranno allora i pregiudizi; di fronte alla lealtà spariranno allora le avverse prevenzioni".
Anche per questo, naturalmente, ci vorrà ancora un’infinità di tempo. Però intanto si annuncia una novità. Alberto Blanc, che è il segretario generale del ministero degli esteri, ma è venuto a Roma con le truppe in missione non ufficiale, andrà domani in Vaticano a parlare con Giacomo Antonelli: è stato il cardinale a fargli sapere che avrebbe gradito riceverlo.
Roma, 25 settembre 1870, domenica
L’incontro è all’una. L’anticamera del cardinale è piuttosto gremita, anche in un giorno che sarebbe di festa, ma Alberto Blanc viene fatto passare subito. Si trovano così di fronte due persone che, almeno all’apparenza, più diverse non potrebbero essere: un giovanotto savoiardo di trentacinque anni, che ha già fatto una bella carriera e altra ne farà, e un signore sessantaquattrenne, che già da molto tempo misura il declino dello Stato che governa e di se stesso. C’è la possibilità che i due possano intendersi: sono entrambi diplomatici, prima d’ogni altra cosa.
Antonelli è cordiale, ma ovviamente misurato: " Gli eventi, dolorosi per tutti, che si sono compiuti, sono tali che solo l’avvenire potrà mostrarci quale situazione ne risulti per la Santa Sede". Fa anche l’elogio del comportamento rispettoso delle truppe italiane. Poi viene al punto, che è la ragione principale per cui ha cercato Blanc: " Le difficoltà che presenta il vostro progetto di lasciare al Santo Padre la Città Leonina sono fin d’ora insolubili con grave detrimento della sicurezza del Santo Padre. Questo Borgo è divenuto il punto d’incontro di tutti i mascalzoni di Roma, perché non vi esiste più autorità. Il comandante in capo dovrebbe stabilirvi, come nel resto di Roma, posti di sicurezza pubblica e un servizio regolare d’amministrazione militare. Sarebbe anche urgente che le truppe regie occupassero Castel Sant’Angelo, dove si trovano quantità considerevoli di polvere da sparo che pochi veterani non sono sufficienti a guardare dagli attentati possibili degli uomini del disordine. Ci sarebbe anche da togliere alcuni cassoni di polvere lasciati nei giardini vaticani, che inquietano Sua Santità".
Deluso Blanc? Gli ha fatto la nota della spesa, il cardinale? O magari gli ha detto: " Avete voluto Roma, ora prendetevela tutta"?. Non c’è dubbio che dietro la questione di ordine pubblico, di sicurezza, ce ne sia anche un’altra, ben più tosta: se il papa adesso dicesse " sì, mi prendo Borgo, che sarà, come suggerite, un municipio autonomo sotto la mia sovranità", se il papa dicesse questo, sarebbe già il primo segno d’una conciliazione, sarebbe l’accettazione del fatto compiuto. E di questo né Giovanni Maria Mastai Ferretti, né Giacomo Antonelli vogliono sapere nulla. Però il cardinale segretario di Stato è di quelli che si riconoscono sempre in un motto, che dopo più di un secolo sarà anche un titolo di film: " Mai dire mai".
Blanc insiste sulla bontà del progetto della sovranità pontificia sul fazzoletto di terra fra il Vaticano e il Tevere. Antonelli lo lascia parlare. L’altro poi cerca altre aperture: " Gli ufficiali solo per discrezione si sono finora astenuti dal chiedere udienza al Santo Padre". Antonelli, sfinge rassicurante, risponde: " Bisogna far passare ancora qualche giorno e allora tutto potrà diventare più facile". Dopo un’ora di queste chiacchiere il cardinale congeda Blanc dicendogli: " Può venire da me anche tutte le mattine e spero di rivederla presto".
Firenze, 26 settembre 1870, lunedì
C’è un problema. Ce ne sono cento, com’è naturale. Ma questo rischia di guastare tutto già prima di cominciare. Per il plebiscito, che deve sancire l’adesione delle provincie romane al regno, il Consiglio dei ministri ha pensato alla seguente formula: " Colla certezza che il Governo italiano assicurerà l’indipendenza dell’autorità spirituale del Papa, dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo Monarchico Costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi reali successori". Già ieri il segretario generale del ministero degli Esteri Alberto Blanc, in missione informale e più segreta possibile a Roma, avvertiva con un telegramma il suo ministro Visconti Venosta: " Credo doverla avvisare confidenzialmente che la giunta sebbene non si possa più conservatrice si rifiuta a proporre la formola del plebiscito nella quale la riunione di Roma sembra subordinata a quel che il governo farà per l’indipendenza spirituale del Papa mentre il rimanente dell’Italia si è riunita con formola senza restrizioni".
Oggi, con un altro telegramma, Blanc è anche più preciso: "Dimissione in massa della giunta inevitabile se persisterete". Sottolinea che sarebbe un fatto di estrema gravità, anche perché Michelangelo Caetani, il presidente della giunta, è la sola persona che sia gradita ai liberali e al papa. Blanc scrive ancora al ministro più volte, per preannunciargli l’arrivo in serata a Firenze di due membri della giunta romana, Emanuele Ruspoli e Vincenzo Tittoni, e per spiegargli quella che considera la ragione di fondo dell’opposizione romana alla formula condizionata del plebiscito: " La pubblica opinione in Roma, a torto od a ragione, ravvisa nella formola proposta dal Ministero una prima applicazione del concetto di Roma città sacra, capitale morale, ma non sede effettiva del governo".
Al momento il governo d’Italia è, come si dice, in barca, ed è anche senza nocchiero, considerato che il presidente del Consiglio Giovanni Lanza ha scelto proprio questo momento per fare un salto a casa, in Piemonte. C’è di più: tutti i telegrammi e le lettere che Blanc ha spedito ieri e oggi a Visconti Venosta erano indirizzati a un ministro dimissionario: Venosta voleva che La Marmora assumesse subito l’incarico di luogotenente del re a Roma. E’ stato preferito il rinvio a dopo il plebiscito: e lui non l’ha presa bene. Ma la situazione, come si capisce, è seria: e lui, il ministro dimissionario, ci sta già ripensando.
Un’ultima cosa, che mi pare di grande ammaestramento. Blanc è tornato da Antonelli, il quale gli ha chiesto un piacere, come si è sempre usato, e ancora si userà a Roma: " Mi domandò se potevo ottenere che un brigadiere d’artiglieria pontificia, suo nipote, non fosse tenuto come gli altri prigionieri, ma potesse dando la sua parola d’onore essere semplicemente internato in una città qualunque del Regno. Io risposi che non dubitavo che il Generale assentisse volentieri a fissargli per residenza anche Roma stessa ( come il Generale dispose infatti quando gli ebbi riferito su questa domanda)".
Roma, 27 settembre 1870, martedì
Due notizie messe in fila dalla Gazzetta Piemontese fra la seconda e la terza pagina. La prima: " In questo momento mi si dice che Pio IX voglia uscir dal suo palazzo e benedir il popolo ed i soldati. Sarebbe un atto di vera diplomazia: quel vecchio ottuagenario dai bianchi capelli vedrebbe ancora molte fronti scoprirsi alla sua presenza".
L’altra: " Secondo una corrispondenza dell’Unità Cattolica ( cui lasciamo tutta le responsabilità della notizia) il Santo Padre non si troverebbe più in Roma, ma sarebbe partito per Malta sotto la protezione dell’ambasciatore Odo Russell; l’Unità dà questa notizia in modo dubitativo". Fa bene a dubitarne, infatti, e magari avrebbe fatto anche più bene la Gazzetta Piemontese a non parlarne. Ma succede sempre così in certi momenti della storia e della cronaca: è tale la curiosità del futuro che ci s’inganna volentieri sul presente e si va appresso a qualsiasi cosa. Così, per servire una falsa notizia, si mettono insieme due, tre ingredienti che la rendano appetibile, se non proprio credibile. Odo Russell è il diplomatico britannico che più di otto anni fa si sentì dire dal papa: "Chissà che un giorno non sarò costretto a pregarla della sua ospitalità".
Il governo di Londra, d’altronde, ha deciso, due mesi fa, d’inviare una nave a Civitavecchia per metterla a disposizione dei propri connazionali, ma anche del papa, se volesse. A migliorare ancora la ricetta può intervenire qualche piccolo tocco di verità: pare sia vero, per esempio, che Pio IX sia andato fino all’ospedale di Santo Spirito – sempre dentro Borgo – per far visita ai feriti, fra i quali forse ci poteva essere già, secondo gli accordi presi fra Antonelli e Blanc, anche qualche soldato italiano. Vero, soprattutto, è che in Vaticano si discute intensamente sul luogo in cui possa o debba stare il papa adesso: il generale dei gesuiti Pietro Becks guida il partito della partenza, Antonelli, stavolta, ammaestrato dall’esperienza del 1848, è il capopartito della permanenza a Roma. Papa Mastai, lui, è abbastanza vecchio e malato per non aver alcuna voglia di viaggiare, ma non gli dispiace di mettere in giro la voce che possa anche andarsene. Capisce che adesso è l’eventualità più temuta dal governo di Firenze. D’altra parte, a restare, guadagnerà quella certa aria di martirio, di sacrificio, che può sembragli il degno compimento d’un pontificato tanto difficile. Basterà poco tempo e spunteranno a Roma le immagini del papa prigioniero.
La crisi all’interno del Consiglio dei ministri sembra avviarsi a una soluzione. Giovanni Lanza, tornato a Firenze, ha risposto con una bella lettera alle dimissioni annunciategli da Visconti Venosta: " È impossibile che Lei si separi da noi a metà cammino, e precisamente quando comincia l’erta. Lei dopo avere così bene condotte le cose e preparata la via vuole abbandonarci? e perché? Vi hanno forse divergenze di principii e di scopo? Non lo credo. In quanto ai mezzi non ci potremmo mettere d’accordo? Tentiamo almeno".
Firenze, 28 settembre 1870, mercoledì
Telegramma del ministro degli Esteri Visconti Venosta al suo segretario generale Alberto Blanc in missione riservata a Roma: «Credo che se il Papa non lascia Roma in occasione del plebiscito si potrà considerare allontanato il pericolo almeno per qualche tempo. Il momento difficile è quello del plebiscito».
Le voci d’una possibile fuga di Pio IX hanno continuato a girare: si è anche detto che l’ambasciatore prussiano Harry von Arnim volesse convincerlo ad andare in Germania. Ad aumentare la confusione è intervenuto il generale Luigi Masi, ora comandante militare della piazza di Roma, che in un telegramma al presidente del Consiglio Lanza, ha accreditato un’improvvisa conversione di Antonelli al partito della partenza: «Da fonte piuttosto buona — ha scritto — sono ora informato che Antonelli preparerebbesi partire e Papa uscirebbe celatamente di Vaticano per viadotto Sant’Angelo e per Fiume Tevere a Fiumicino dove vapore da loro noleggiato attenderebbe». Blanc ribadisce a Visconti Venosta: «Sua Eminenza mi assicurò ripetutamente che finora il Papa non pensa ad andarsene; non si può guarentir nulla per l’avvenire perché le difficoltà potranno crescere, ma se presentemente pensasse di partire, sarebbe già partito prima».
Sfinge speciale, il cardinale Antonelli: dice cose ovvie, che sembrano sentenze e, proprio perché ovvie, appaiono anche vere. In ogni modo è proprio da questa paura d’una fuga del papa, che è nato tutto il problema della formula del plebiscito. «Colla certezza che il Governo italiano assicurerà l’indipendenza dell’autorità spirituale del Papa…»: era solo la smania di rassicurare gli altri governi, le comunità cattoliche dei diversi paesi, la Chiesa stessa a spiegare quella condizione, quello scrupolo. Finalmente si è capito e il governo ha rinunciato a proporre ai romani quell’esercizio di politica internazionale. Possono senza dubbio aver favorito questo risultato un paio di lettere scritte da Diomede Pantaleoni, un vecchio liberale moderato nato sessant’anni fa a Macerata. I migliori della sua cerchia di amici, Massimo d’Azeglio, Luigi Carlo Farini, sono scomparsi da qualche anno. Il primo ad andarsene è stato Cavour, che proprio da Pantaleoni ha preso la nota ricetta: «Libera Chiesa in libero Stato». È considerato uno dei migliori conoscitori della questione romana: forse bisognerebbe dire delle questioni romane, perché più o meno le ha sperimentate tutte. È tornato a Roma solo giovedì scorso. Mancava da quasi dieci anni: nel 1861 era stato eletto al Parlamento italiano dai maceratesi, appena divenuti cittadini del regno. Il governo pontificio non aveva gradito e lo aveva espulso da Roma, dove aveva passato una buona metà della vita esercitando anche con successo e merito la sua professione di medico. Ieri ha scritto a Visconti Venosta a proposito della formula condizionata: «Scusi, ma come l’uomo, che in questi due mesi ha condotto sì mirabilmente la diplomazia italiana, può cadere in questo tranello?!!». Oggi scrive all’amico Marco Minghetti, che da circa un mese è ambasciatore a Vienna: «A Firenze si sono incaponiti di fare una formola condizionata, e peggio condizionata all’indipendenza papale — Parmi tale sproposito da appena poterlo io comprendere — Chi deciderà se la condizione è poi adempiuta o no? Quante liti, quanti appigli dati alla diplomazia, ai nemici! quale appoggio dato al papato per combatter-ci!!!».
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29 settembre 1870, giovedì
La Gazzetta Ufficiale di Roma, che è il giornale che da una settimana ha preso, anche materialmente, il posto del pontificio Giornale di Roma, annuncia il plebiscito per domenica 2 ottobre e finalmente ne precisa anche la formula, concordata fra la giunta e il governo. Sta in seconda pagina, ma tutta maiuscola: “ VOGLIAMO LA NOSTRA UNIONE AL REGNO D’ITALIA SOTTO IL GOVERNO MONARCHICO COSTITUZIONALE DEL RE VITTORIO EMANUELE II E SUOI SUCCESSORI”. Si può naturalmente rispondere sì o no, ma già così come si presenta, o meglio non si presenta neppure, la questione, ci vuole proprio poco a pensare che a rispondere no sarà solo qualche originale. Non bastasse questo, la giunta ha messo nel proclama qualche parola d’incoraggiamento, come queste finali: “ Nell’approssimarci all’urna richiamiamo alla mente che deponendo il SI noi compiremo i voti d’Italia e del Parlamento, e rimetteremo al suo posto Roma nostra, la gran Madre dell’antica civiltà”. Il papa, che tace da quasi venti giorni – l’ultima sua uscita pubblica è stata la risposta alla lettera del re – ha pensato che era ora di parlare e lo ha fatto con una lettera ai cardinali. L’attacco è quasi vertiginoso per altezza: “ Nostro Signor Gesù Cristo, che umilia ed esalta, dà morte e rende la vita, flagella e salva, permise testé che la città di Roma, sede del supremo Pontificato, cadesse nelle mani dei nemici, insieme col resto di quella parte del dominio della Chiesa, che i nemici medesimi stimarono di lasciare per qualche tempo esente dalla usurpazione”. Detto questo, Pio IX spiega ai cardinali che ha deciso oggi di dichiarare “come è debito Nostro, e ce l’impone la voce della Nostra coscienza, gli intimi sentimenti del Nostro animo, co’ quali apertamente e pubblicamente detestiamo e riproviamo il presente stato di cose”. Anche qui, si può condividere o no, ma non si può negare che il papa, le sue ragioni, le abbia. Il problema è che, quando comincia a spiegarle, un poco anche le banalizza in un’illustrazione di piccoli incidenti avvenuti di recente che dimostrerebbero la perdita del libero esercizio della sua missione apostolica: “Coloro che uscivano dalla soglia del Nostro domicilio in Vaticano furono sottoposti a perquisizione, spiando i soldati del nuovo Governo se mai quelli nascondessero alcuna cosa sotto le vesti”. Di questo e altro Antonelli ha parlato oggi stesso con Blanc, il quale ha già provveduto. Fra gli episodi denunciati da Pio IX nella lettera ai cardinali c’è anche questo: “ Si prendono a forza e si esaminano i registri delle stesse parrocchie della città, ed è chiaro che ciò si fa per ricavarne quelle nozioni che forse servono per le liste della coscrizione militare e per altri fini che è facile indovinare”. Indovinato? Domenica c’è il plebiscito: e per cercare gli elettori bisogna ricorrere ai registri delle anime, che a Roma, per adesso, si trovano solo nelle parrocchie.
Roma, 30 settembre 1870, venerdì
“In questo momento si alzano in tutte le piazze padiglioni di legno ricoperti di drappi tricolori. Là si riceveranno le schede del popolo romano per la sua riunione alla grande famiglia nazionale”. Il momento è oggi, antivigilia del plebiscito. Il giornale è la Gazzetta Piemontese. Il numero sarà quello di lunedì 2 ottobre: sembra incredibile il tempo che ancora impiegano i giornali per pubblicare quello che scrivono gli inviati. Quanto alle piazze, ovviamente, non sono tutte quelle che ha Roma. Sono previsti solo dodici luoghi, con altrettante urne, dove consegnare le schede. L’elenco già pronto, che sarà pubblicato domani dalla Gazzetta Ufficiale di Roma, è questo: Campidoglio, piazza Barberini, il palazzo Odescalchi ai Santi Apostoli, il palazzo Pamphilj di piazza Navona, la piazza di Spagna, via de’ Serpenti, il teatro Apollo, piazza de’ Ricci, la piazza di Santa Maria in Trastevere, la piazza del Biscione, la piazzetta a ferro di cavallo che dà su via di Ripetta, infine piazza Colonna. Interverrà presto una variazione: il teatro Apollo, che al momento è ancora lì sul Tevere a Tordinona, sarà sostituito dalla piazzetta di Ponte Sant’Angelo.
In ogni modo, delle dodici sedi destinate alla votazione, solo una, Santa Maria in Trastevere, è sulla riva destra del fiume. Nella stessa proporzione sono gli indirizzi ai quali si devono ritirare le schede per il voto: sono in tutto ventiquattro e solo due, entrambi di Trastevere, sono sulla riva destra.
Si fa sempre più forte il dubbio e, più che il dubbio, quasi la certezza che il governo di Firenze voglia escludere dal plebiscito quelli che a Roma si chiamano i borghiciani, ovvero gli abitanti di Borgo. Non è esattamente così: diciamo che il governo italiano non vuol dare troppo nell’occhio, e d’altra parte mantiene l’intenzione di offrire al papa l’extraterritorialità di quel rione. Per avere un’idea della confusione che regna ora nelle teste degli addetti ai lavori, non c’è documento migliore della lettera, l’ennesima, che Alberto Blanc scrive oggi al suo ministro Visconti Venosta: “ Dopo il plebiscito spontaneo che non si può impedire facciano per proprio conto gli abitanti della città Leonina, la giunta deliberebbe che non potendosi trascurare né i diritti di quella popolazione, né gl’impegni moralmente presi dal governo di lasciare assolutamente la città Leonina al sommo Pontefice, sarà provvisto alla completa espropriazione di tutti i beni stabili, sia fabbricati che terreni, della città Leonina, per essere lasciati in piena proprietà al Sommo Pontefice come amministratore della Chiesa; salvo a rifondere la città di Roma del prezzo degli indennizzi da pagarsi ai proprietari, sul prodotto della eventuale liquidazione da farsi dei beni di mano morta delle corporazioni ecclesiastiche in Roma, quando vengano ad essere applicate anche qui le leggi vigenti al riguardo in Italia”. Ecco, dunque, che anche l’intelligente, l’acuto, accorto, ragionevole, sveglio diplomatico è preso da una vena di pazzia, che gli fa immaginare una trasmigrazione di popolo da una riva all’altra del Tevere, una partita di giro di espropriazioni, indennizzi e recuperi dall’incameramento futuro dei beni ecclesiastici e una specie di cittadella santa “capace di 40.000 anime”, cardinali, monsignori, preti, frati, monache – tutte le congregazioni – attorno alla basilica di San Pietro.
Roma, 1 ottobre 1870, sabato
«L’esercito italiano è entrato a Roma non per ridurre la sovranità mondana del Papa a più stretti limiti, ma per abbatterla interamente. Egli vi è entrato non per chiamare un maggior numero di cittadini romani alla partecipazione de’ diritti nazionali, ma per chiamarveli tutti, senza distinzione, senza eccezione, senza riserva di sorta. Non può venire in mente ad un uomo politico che di qua del Tevere vi siano cittadini italiani, di là sudditi del Papa, o meglio sudditi della Chiesa; di qua ci sia il regno della libertà, di là la dominazione del Sillabo». Così oggi L’Opinione, nell’editoriale di prima pagina.
Sappiamo già quanto il direttore Giacomo Dina sia vicino al ministro delle Finanze Quintino Sella, il gran regista della discesa a Roma: se ne potrebbe dedurre che il governo italiano ha già deciso di farla finita con l’idea balzana del sacrificio alla sovranità pontificia del quattordicesimo rione di Roma, Borgo o Città Leonina che si voglia chiamare. Gli sviluppi di questa storia – e ce ne saranno – saranno in ogni modo da seguire.
La vigilia del plebiscito accende l’attenzione degli italiani su questo popolo che si accinge a votare. A voler stare proprio attenti, ci sarebbe anche da leggere l’articolo che pubblica oggi il settimanale cattolico Il Divin Salvatore: «Domani avrà luogo in Roma il plebiscito, che deve dichiarare il Papa decaduto dalla sua regia autorità. Dio giudicherà e la storia di tale gravissimo atto; noi ci contentiamo di osservare, che è cosa ben crudele di spingere i Romani a detronizzare un sovrano, cui Roma va debitrice di non essere stata annientata dai barbari e di essere stata posta a capo della vera civiltà del mondo». E’ un punto di vista che, di immediatamente pratico, non porta altro che una facile previsione: il clero e i cattolici più devoti in grande maggioranza si asterranno.
Di veramente nuovo c’è che gli osservatori esterni, come si dice, si accorgono, forse per la prima volta, che i romani sono migliori di com’erano prima descritti o immaginati. La Gazzetta del Popolo, per esempio, sostiene che hanno sbagliato a giudicarli sia la sinistra che la destra e conclude: «È un fior di popolo; incapace di lasciarsi trarre in inganno dai fumi e dalle apparenze, ma incapace del pari di lasciarsi condurre per una falsa via dalle lusinghe e dalle carezze». Sono magari entusiasmi del momento. Passeranno.
Roma, 2 ottobre 1870, domenica
“Uscirono fuori, non si sa da dove, dieci, dodici, venti bande musicali, – o come dicono romanamente concerti – composte di borghesi che suonavano perfettamente la marcia reale, l’inno di Garibaldi, quello di Mameli, l’Addio, mia bella, addio, e tante altre arie patriottiche, lo studio delle quali non era certamente favorito e neppur tollerato sotto il paterno regime di monsignore Randi governatore di Roma”. Ce lo racconta Ugo Pesci: senza di lui – diciamolo francamente – rischieremmo di essere un po’ ciechi e un po’ sordi. I giornalisti possono essere tutti buoni, bravi e onesti, ma alla fine non sono tanti quelli che fanno davvero il mestiere di ascoltare e osservare.
Il plebiscito è una festa, con le stranezze anche di certe feste paesane. Ancora Pesci, nella sua corrispondenza per il Fanfulla: " Tutti gli esercenti le professioni, le arti, i mestieri eransi dati convegno a diversi luoghi ed in diverse ore per recarsi con le rispettive bandiere a dare il loro SI’ al Campidoglio od altrove. Tutte queste corporazioni erano lungo il passaggio salutate d’applausi dalla gente che trovavasi affollata lungo la strada e dalle numerose signore che ornavano ogni balcone. E non era solo il caso che una brigata si incontrasse nella non larga via del Corso in un’altra che dopo aver deposto il proprio voto s’incamminava in senso opposto, ed allora quasi militarmente una delle brigate fermatasi e facendo fronte all’altra che passava dinanzi si scambiavano applausi e calde strette di mano". Chissà perché, mi vengono in mente i film di Don Camillo e Peppone: quello di Carmine Gallone, per esempio, in cui il sindaco di Brescello, eletto deputato, viene accompagnato alla stazione " quasi militarmente" dai seguaci. Una spiegazione, in fondo, ci sarebbe: che questa Roma del 1870 è abbastanza semplice da poter già stare dentro l’Italia di Guareschi.
La marcia più solenne, oggi, è quella che fanno i borghiciani. E sì, alla fine le urne saranno diventate tredici, una in più di quelle che erano previste. Gli abitanti di Borgo, ovvero i promessi sudditi pontifici della Città Leonina, non hanno voluto essere esclusi dalla festa, dal voto. Il punto esatto dove sia stata messa la tredicesima urna non so dirlo, perché Nino Costa, il pittore, dice "su la piazzetta di Borgo" e Ugo Pesci sostiene invece che " fu posta sul ponte Sant’Angelo, pochi passi fuori dal territorio della città Leonina". Quale che sia il posto, non fa grande differenza. Fa differenza, invece, la presenza di quei voti portati dentro un’urna di cristallo, dalla riva destra del Tevere fino al Campidoglio: "Quando la processione nobile e dignitosa dei borghigiani, nella quale il ceto popolare predominava, apparve in fondo alla rampa Capitolina e la salì lentamente, sempre in silenzio – è ancora Pesci che racconta – non scoppiò un applauso ma s’alzò dalla folla che stava nella piazza una esclamazione, un grido sommesso di commozione e d’ammirazione". Domani Il Secolo, il giornale della sinistra milanese, commenterà: "Il solo dubbio che il governo volesse lasciare la città Leonina in sovranità del Pontefice, ha bastato perché tutta quella popolazione si recasse in massa al Campidoglio, a consegnare nella mani della Giunta provvisoria il suo unanime voto di essere unita all’Italia. Così il popolo romano ha rimediato col suo squisitissimo criterio politico ai pericoli d’una politica inetta e pusillanime, quale era quella che veniva fatta fin qui dal governo di Firenze. Il popolo romano col solo suo buon senso, ha mostrato di saperne di più dei nostri sapientissimi governanti". Il voto di Borgo è tutto per l’adesione al Regno d’Italia: 1.546 sì su altrettanti votanti. In tutta Roma i sì sono 40.785, i no 46. Sette schede sono state annullate: e ciò che più dispiace al diarista è di non aver potuto leggere cosa ci fosse scritto.
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