Corriere della Sera, 6 settembre 2020
Chi soffia sul fuoco della paura
Un lettore mi ha chiesto perché alcuni uomini politici abbiano duramente criticato le misure adottate da molti governi per combattere la diffusione del coronavirus o abbiano cercato di ridurne la portata. Alludeva probabilmente a Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, a Jair Bolsonaro, presidente del Brasile, a Boris Johnson, primo ministro della Gran Bretagna, a Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria e ad altre personalità politiche che non hanno cariche istituzionali, ma possono esercitare una notevole influenza sulla pubblica opinione. Qualcuno ha dovuto correggere la propria posizione, ma senza nascondere un forte disappunto.
Credo che le ragioni siano almeno due. Anzitutto queste persone appartengono a una categoria di politici che non amano il principio democratico dell’alternanza fra partiti con programmi diversi, pronti a confrontarsi nella stessa arena rispettandone le regole e accettando sportivamente le sconfitte.
Non si spingeranno, sperabilmente, sino a tentare un colpo di Stato, ma non condividono i principi della democrazia rappresentativa e cercano voti soprattutto là dove esistono sacche di rabbia per i danni veri o presunti di cui i governi in carica, con le loro politiche democratiche e i loro principi umanitari, sarebbero responsabili. Il nemico preferito è l’immigrazione, ma nel caso del coronavirus hanno trovato alleati anche fra coloro a cui le regole del lockdown hanno procurato sacrifici economici, o, nel caso tedesco, fra quei nostalgici del passato nazista che la Germania democratica ha denunciato e condannato.
Esiste probabilmente una seconda ragione. Questi sovranisti sapevano che le epidemie si combattono con il rigore della disciplina e, se la situazione è particolarmente grave, con lo stato di emergenza. Uomini come Bolsonaro, Orbán e Trump non vogliono limiti alle loro ambizioni politiche e, per conquistare voti, hanno cercato di convincere la pubblica opinione che il miglior modo per affrontare l’epidemia è quello di lasciarle fare il suo corso sino a quando il virus avrà perduto la sua forza originaria. La soluzione si chiama «immunità di gregge» ed è stata così definita al Corriere della Sera da Alberto Mantovani, direttore scientifico della Humanitas di Milano: «L’immunità di comunità (una espressione preferibile a “immunità di gregge”) si costruisce in due modi: o con il vaccino o in modo spontaneo, come accade per esempio nel trattamento dell’influenza. Ma in questo momento non siamo abbastanza preparati sul Covid-19, perché è un virus che ci è praticamente ignoto e in generale i virus tendono a cambiare a ogni stagione. Per questo l’immunità di gregge è una pratica sconsigliata e da irresponsabili: sarà raggiungibile con il vaccino».
Molti nemici del lockdown hanno rinunciato a invocare l’immunità di gregge, ma non rinunciano a considerare le misure di sicurezza un ostacolo alle loro ambizioni politiche e a soffiare sul fuoco di qualsiasi malumore affligga la società contemporanea.