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 2020  settembre 05 Sabato calendario

Biografia di Alessandro Carrera raccontata da lui stesso

Nel periodo della trasformazione della canzone italiana, Alessandro Carrera si scoprì cantautore. Un giovane di vent’anni come tanti, armato di chitarra e parole descriveva il proprio mondo di insofferenze sociali e politiche. Era il 1975. «Quell’anno scrissi e cantai una canzone dal titolo un po’ respingente: Gli imbianchini della Statale. Sotto forma di lettera a un’amica raccontavo i funerali di Enzo Paci, che era stato mio professore. Era come se un’epoca si stesse mestamente chiudendo. Immaginai che degli operai, in equilibrio sul carro funebre, passando sotto le mura dell’università di Milano, cancellassero le ultime scritte rimaste del ’68. Era un modo di dire addio a quello che ero stato. Ti confesso che ancora oggi un po’ mi vergogno di quella canzone così candida e mi ha sorpreso che per i 50 anni del Club Tenco mi abbiano invitato per cantarla».
Nella vita avresti fatto soprattutto altro, il filosofo, il saggista, l’organizzatore culturale, saresti andato a vivere negli Usa, ma che cosa ti aspettavi da quel mondo di canzoni impegnate?
«Non mi aspettavo niente di particolare, anche perché capii subito che non avrei fatto il cantautore a vita. Per me scrivere canzoni era in quel momento un modo di mettere insieme la passione per la musica e quella per la poesia. Ho fortissimi ricordi di quegli anni. E non tutti positivi».
E tu mollasti la musica?
«Non la musica ma la canzone. Avevo una laurea in filosofia con Carlo Sini e una tesi su Schönberg. Ricordo che di giorno partecipavo ai dibattiti sulla canzone politica e la sera scrivevo sui Lieder di Schönberg. Pubblicai il mio primo libro per Feltrinelli, Musica e pubblico giovanile, due mesi prima di discutere la tesi. Mi resi conto allora che non avrei avuto una vita tranquilla, non mi sarei mai trovato nella situazione di dovermi occupare di una cosa sola. E i mondi paralleli non hanno fatto che moltiplicarsi».
Uno di questi mondi è stato e continua a essere l’America. Perché quella scelta?
«In Italia non battevo più un chiodo. O meglio, avevo una cattedra alla scuola media e per un errore burocratico non entrai nella graduatoria utile per insegnare filosofia al liceo. Ero furioso. Poi vinsi una selezione indetta dal Ministero degli Esteri per insegnanti in università straniere. Partii nel 1987».
Esattamente per dove?
«Il primo impatto fu con il Texas. Facevo molta vita di società allora, ripetitiva ma antropologicamente interessante. Poi tre anni di calma e riservatezza canadese, seguita dall’esplosione di New York, dove per sette anni ho organizzato gli eventi letterari dell’Istituto di Cultura e insegnato alla NYU e in tutte le università dello Stato. L’incarico permanente è venuto da Houston e lì tornai».
Chi frequentavi?
«A New York una fauna letteraria molto variegata. Mentre nel Texas l’assenza di case editrici costringeva gli scrittori a far riferimento a New York. C’è una grande differenza tra gli intellettuali che hanno vissuto anche fuori dagli Stati Uniti, e magari parlano una seconda lingua, e quelli concentrati unicamente sugli irrisolvibili problemi della loro identità americana. Con i primi un dialogo è possibile; con gli altri la conversazione finisce subito».
So che ti sei imbarcato nell’ardua impresa di far conoscere Emanuele Severino agli americani.
«Sono tra i curatori dell’edizione inglese di Essenza del nichilismo. Da alcuni anni sto lavorando a un progetto per la diffusione delle sue opere, come di quelle di Cacciari e Sini».
C’è interesse?
«La risposta è lenta perché in questo momento se non usi la parola "biopolitica" o "gender" in America non ti ascoltano. Ma le tendenze mutano in fretta, l’università americana è vorace, ti mastica e poi ti sputa».
Cosa vuoi dire?
«Biopolitica e Gender studies sono temi importanti e attualissimi, ma spostano la filosofia interamente sul versante di quella che in lingua inglese si chiama "Critical Theory", mentre la filosofia italiana ha anche un forte fondamento teoretico e di teoria della conoscenza. Nel mondo anglosassone questo terreno è occupato dai filosofi analitici, i quali usano tutti lo stesso lessico. Per questo è importante far conoscere l’originalità di certi nostri filosofi italiani».
Insegni letteratura italiana comparata. Come sono accolti i nostri scrittori?
«Per lo più se ne fregano di noi. Ma non solo l’Italia è marginale, lo è anche l’Europa. Ma Calvino e Primo Levi tengono ancora. Come pure c’è interesse per il Rinascimento. E poi Dante. Lui è un evergreen. Però in questo momento sembra che non ci sia nient’altro che Elena Ferrante, il che, intendiamoci, va benissimo».
A cosa è dovuto il successo americano della Ferrante?
«Da un lato l’Italia che la Ferrante descrive ha le sue radici in un periodo che molti americani conoscono dai film del neorealismo (donne spettinate che urlano dai balconi, come si vede anche nella serie televisiva). Ma dall’altro c’è il tema importante dell’amicizia femminile, che è la vera chiave del fascino esercitato dal "Quartetto Napoletano". Però e anche vero che all’epoca di Calvino e di Eco (Le città invisibili e Il nome della Rosa, per citare due libri che hanno avuto vasta risonanza in America) ci si aspettava ancora che dall’Italia arrivasse una certa forma di modernità europea molto colta e sofisticata. Oggi nessuno immagina che dall’Italia venga un’avanguardia. Comunque a me la Ferrante piace, e la insegno ai miei studenti».
Ti sei occupato a lungo di Bob Dylan. Cosa pensi del suo lavoro recente, che molti hanno trovato sorprendente?
«Tutto l’ultimo disco, compreso Murder Most Foul, suona come la chiusura di un cerchio. C’è Kennedy, ma anche Martin Luther King, c’è l’intera musica americana del ’900 e non solo. Di Schönberg, il suo allievo diceva che era un conservatore che si era inventato una rivoluzione per poter conservare meglio quello che voleva. Si può dire la stessa cosa di Dylan. Nonostante l’industria dello spettacolo americana gli attribuisca due gravi torti».
Quali?
«Quello di non essere morto al momento giusto e di non prestarsi alle trasmissioni biografiche in cui le rockstar con i capelli bianchi e piene di acciacchi vanno a raccontare dei loro divorzi, della loro dipendenza dalla droga e delle successive disintossicazioni. Dylan è totalmente estraneo a questo mondo».
Che America interpreta o gli corrisponde?
«C’è stato un tempo in cui sembrava che la sua voce fosse una spiegazione dell’America. Ma oggi il paese è etnicamente, culturalmente e politicamente troppo frammentato. Ci sono molte Americhe e Dylan è una delle tante».
Concludi il tuo libro su di lui con una lunga citazione di Gilles Deleuze che ammette che avrebbe voluto tenere un corso di filosofia come Dylan scrive e organizza una canzone. Niente metodo o ricette. Molta improvvisazione.
«È quello che ho imparato a fare. Mai usare appunti durante la lezione e muoversi come se dovessi costruire un collage di immagini. Per incuriosire gli studenti devi imparare a fare il disc-jockey della cultura. Per questo gioco su più tavoli e scrivo di letteratura e poesia, pittura e musica».
Nei titoli dei tuoi libri ricorre la parola "consistenza". Che valore attribuisci alla solidità?
«Più che la solidità mi interessa la "tenuta". Cos’è che tiene, cos’è che rimane, quale conoscenza una generazione riesce a passare a un’altra? Se dovessi scrivere un terzo libro sulla consistenza lo chiamerei La consistenza del sapere, senza dimenticare che galleggiamo tutti su un mare di in-consistenza. Dopo anni di lavoro ho finito un romanzo tutto italiano e tutto rivolto al buio del passato (la fine degli anni Settanta). Si chiama Lo studente di medicina e uscirà per Passigli a novembre».
Sei sposato?
«Da vent’anni circa. Mia moglie si chiama Victoria, è nata a Londra ma è cresciuta a Torino. Anche lei insegna cultura italiana, si occupa di cinema e di arte contemporanea. Ma non siamo mai riusciti a trovare il lavoro che volevamo nella stessa città. Lo spazio ha allontanato il nostro tempo. Ora lei abita a Lubbock, nel nord del Texas. Il che mi richiede un’ora e mezza di aereo o dieci ore di macchina. Vivere separati ha reso impossibile avere dei figli».
Come hai sostituito i figli che non avete avuto?
«Forse scrivendo delle vite degli altri».
È un modo per poter vivere la propria?
«Penso che se scrivi devi farlo continuamente. Se sei un poeta lirico, basti a te stesso. Ma per me è così solo raramente. Se scrivo narrativa, i personaggi minori sono sempre presi dal vero. Se sono monografie, mi devo appropriare di Dylan, Schönberg, Leopardi, Tomasi di Lampedusa, Rothko, Fellini e ora Andy Warhol, del quale sto curando per Feltrinelli gli scritti».
Perché Andy Warhol continua ad essere così popolare?
«Andy Warhol, diceva Giulio Carlo Argan, è la fine dell’arte. O forse è la "morte dell’arte" nel senso di Hegel, per cui dopo la tragedia viene la commedia. Ossia l’arte non muore ma impara a sopravvivere. In Warhol l’arte sopravvive annullandosi in un’ironia quasi autistica, ma sopravvive».
Hai mai pensato di tornare a fare il cantautore?
«La verità è che non ho mai smesso. Se non per un periodo di totale rifiuto negli anni ’80. A ottobre uscirà a New York Songs of Purgatory, una raccolta di poesie e canzoni con traduzioni di Ron Banerjee, un poeta indiano che vive nel Massachussetts».
Ti aspetti una buona accoglienza?
«Beh, non lavoro per i posteri. Le canzoni si potranno ascoltare in streaming sul sito "Gradiva Publications"».
Come vivi un fallimento?
«Se qualcuno ti dice di no, c’è sempre una ragione. Che magari è sbagliata e di sicuro non è la tua, ma c’è. Accettare alcuni fallimenti mi ha salvato da fallimenti peggiori».
Nel tuo ultimo libro dedicato a Rothko, "Il colore del buio", parli della sua arte, della cappella che dipinse e della morte che si diede.
«La decisione di porre fine alla sua vita è stata la vittoria dell’abisso. I dipinti della Cappella di Houston furono il suo modo di far prevalere la vita sulla morte».
Dylan-Rothko, vite parallele che non si intersecheranno mai?
«Nonostante la comune matrice ebraica, Dylan lavora per incorporazioni, Rothko per espulsioni».
Che cosa pensi dei quadri dipinti dal vecchio Bob?
«Anche Schönberg era un pittore dilettante. Migliore di Dylan. Ma non sarebbe passato alla storia per i suoi quadri. Sono peccati che a un grande artista bisogna perdonare».
Che valore dai al buio?
«Nel buio viene concepita la vita. La mezzanotte è la prima ora del giorno. Nel buio si imparano la paura e il coraggio che poi va mostrato nella luce. Ma al buio non si deve morire. L’hanno detto Goethe e Foscolo, "Lasciaci almeno morire alla luce del sole", implora Aiace a Zeus nel libro XVII dell’Iliade».
Stiamo vivendo un periodo oscuro?
«Penso di sì. Contribuendo al disastroso cambiamento climatico, forse già in atto per conto suo, ora abbastanza incontrollabile; e adesso il Covid sta cambiando noi».
Come hai vissuto questa esperienza dal tuo osservatorio americano?
«Sono sgomento, e non sono il solo, nel constatare la risposta isterico-paranoica degli Stati Uniti e l’incapacità dell’americano di ammettere che sì, c’è qualcosa che è più forte dell’America, ed è uno stupidissimo virus. È dalla fine della guerra fredda che gli Usa sono alla ricerca di un nemico e adesso che l’hanno trovato, devono venirci a patti. Non possono prenderlo a fucilate. È pericoloso ma inconsistente. Lo temono ma non lo vogliono riconoscere».