Robinson, 5 settembre 2020
Vita vera d’artista inesistente
C’era un pittore che dipingeva ponti e ancora ponti, sospesi su collage o scarabocchi (oltre duecento, erano numerati). Per spiegare la fissazione, diceva: «Mi piacciono i ponti, così forti e così semplici, ma immagina cosa scorre nel fiume che c’è sotto». Inappuntabile. Coerente con quel che ci aspettiamo – per lunga esperienza, dichiarazioni di poetica ne abbiamo sentite tante – da un artista invitato a raccontare il proprio lavoro. Una banalità bella e buona, a cui nessuno osa obiettare. Abbiamo sbagliato a chiedere – i pittori dovrebbero dipingere, non parlare – e ora resterà negli annali.
L’acqua che scorre sotto i ponti è solo uno dei dettagli magnificamente messi a fuoco da William Boyd nella sua monografia su Nat Tate. Inventata di sana pianta, come l’artista. Falsificata con cura amorevole e conoscenza dell’ambiente, la New York anni Cinquanta di Jackson Pollock e Willem de Kooning. La vita maledetta di un pittore morto giovane e riscoperto negli anni Novanta, ricostruita con talento mimetico da un grande romanziere.
Dieci anni prima di scrivere Nat Tate ( sottotitolo: Un artista americano 1928 – 1960) William Boyd già aveva una passione per i diari e le scritture in prima persona. Purché falsi, o fabbricati ad arte. Scozzese nato nel Ghana, quasi 70 anni fa, William Boyd appartiene a una cultura che nei romanzieri apprezza sopra ogni cosa l’immaginazione.
Le nuove confessioni (del 1987 l’edizione originale) sono le memorie di John James Todd: regista di cinema che scoprì la macchina da presa dopo essersi arruolato volontario nella prima guerra mondiale. Aveva imparato l’arte dai racconti in gaelico della governante: la madre era morta mettendolo al mondo, il padre lo odiava, l’orfano Jean- Jacques Rousseau – da qui il titolo – diventa la sua guida.
Il personaggio Nat Tate nasce dalle parole di un critico che leggendo Le nuove confessioni commentò: «in tanto realismo mancano solo le fotografie». William Boyd ne raccatta parecchie ai mercatini dell’usato, e medita il passo successivo: una finta biografia completa di illustrazioni. «Non pensavo a una beffa», tiene a dire. Né il bersaglio era il mondo dell’arte. Per un David Hockney’s Alphabet, aveva già la storia di Nguyen N, inesistente scrittore francofono del Laos emigrato a Parigi. Alla presentazione, incontrò un ospite diligente che disse di aver ordinato i libri dello scrittore inesistente.
Non pensava a una beffa, era uno studio di fattibilità. Quante bugie si possono raccontare su un personaggio prima che qualcuno ti smascheri? Gli indizi erano tanti. Il testimone numero uno dell’esistenza di Nat Tate era tale Logan Mountstuart, scrittore britannico già apparso in un racconto di William Boyd, prima di esser promosso a protagonista del romanzo Ogni cuore umano ( ora anche una serie BBC). Altro finto memoir: Mr Mountstuart attraversa il Novecento trovandosi sempre là dove succedono le cose ( come il protagonsta delle Cento vite di Nemesio di Marco Rossari). Manco a dirlo, Nat Tate fa una comparsata tra le pagine.
C’erano le fotografie, non solo del presunto Nat Tate in stivaloni di pelle, anche dei presunti genitori adottivi e dei presunti amici ( inventare biografie per volti sconosciuti è un esercizio fascinoso, lo hanno fatto – ognuno a suo modo – W. G. Sebald e Paolo Sorrentino). C’era l’ambiente dove far muovere l’artista, tra vere celebrità: oltre agli americani, Braque e Picasso. Per chiudere l’operazione alla Zelig mancava una biografia, anzi una “vita d’artista”.
Padre incerto, la madre ne indicava di volta in volta uno diverso, tutti legati al mare: pescatore, ingegnere navale, sommozzatore. Acquatica anche la fine, giù da un battello come il poeta Hart Crane, Nat Tate citava The Bridge come ispirazione per i suoi ponti. Successo, autodistruzione, tentativi di spiegazione psicoanalitica ( sindrome da figlio adottato? o forse da impostore?). Opere purtroppo quasi del tutto sparite – le altre, dipinte da William Boyd, compaiono nella monografia assieme alle foto raccattate qua e là, munite di didascalia.
La beffa sono gli altri, insiste William Boyd. Poteva restare un gioco letterario, da nota a fondo pagina, finché la monografia su Nat Tate non uscì da 21 Publishing: era la casa editrice fondata da David Bowie, che scrisse una complice e calorosa prefazione, fingendo di aver comprato negli anni Sessanta uno dei quadri perduti (Gore Vidal, pure lui complice, fornì lo strillo da copertina). Per lanciare il volumetto, la rockstar organizzò una festa a Manhattan, nello studio di Jeff Koons. Era il primo aprile 1998. «Poco dopo, un giornalista dell’Independent fece lo scoop», riferisce William Boyd in Nat Tate, la vera storia (nell’edizione Neri Pozza accompagna la monografia).
Un gran bel falso – e tutto da leggere – che come spesso accade nell’arte e in letteratura conta sulla compiacenza delle vittime. Vogliose di commuoversi per la vita infelice di un artista dimenticato ( e magari scovare una sua opera in soffitta). Fin troppo perfetta, ma non bastò per far scattare un campanello d’allarme. Nel 2011 William Boyd cercò di mettere fine al gioco vendendo un quadro di Nat Tate – Bridge # 114 – all’asta da Sotheby’s. Arrivò a 7250 sterline, dimostrando la superiorità delle storie ben raccontate sulle storie vere.