Robinson, 5 settembre 2020
Su “L’attrice” di Anne Enright
Nelle nostre civiltà, tuttora patriarcali quanto alle strutture della parentela, non v’è dubbio, la parola” madre”, come una roccia àncora a sé il destino del nato. Del resto, accorti e illustri studiosi della psiche umana ci hanno avvertito da tempo: il nato di donna non può non riconoscere nella madre l’inizio del proprio destino. Ma in particolare nel caso della figlia femmina questo nodo si fa davvero “gravido” (è proprio il caso di dirlo) di senso. E tragico. Sì che può capitare quel che capita in questo romanzo, ovvero che la figlia debba fare da madre alla propria madre. Ecco, in poche parole, il tema del romanzo di Anne Enright, L’attrice, che compare nella collana Oceani della Nave di Teseo, nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra.
Senz’altro avvincente, la trama è questa: Katherine O’Dell è una star indiscussa in Irlanda, sia a teatro, sia al cinema. Ma costruisce la sua fama, all’inizio, in America, su un equivoco, o addirittura una menzogna: fa l’irlandese, ma non lo è; è nata in Inghilterra. È il grande e complicato segreto che la figlia Norah, nella parte del “narratore” – artificio tecnico di cui Enright fa uso alla maniera del miglior Francis Scott Fitzgerald – non svela, ma contorna, mano mano che ci racconta, niente affatto per filo e per segno, ma a sbalzi e sussulti, la vita appunto dell’Attrice, che è sua madre – la cui carriera comincia da bambina, essendo figlia di attori girovaghi, che con la loro troupe portano il teatro in piccoli villaggi dell’Irlanda rurale. Poi, grazie al suo talento, Katherine varca addirittura l’oceano, e approda in America. E lì si inventa il nome O’Dell. E diventa “irlandese”.
Sì, «mia madre era un grande falso» riconosce la figlia- narratrice Norah. La quale, a questo punto, con gusto e verve si mette a raccontare i film che la vedono coinvolta. Il che permette alla scrittrice Anne Enright di parodiare opere fondamentali del cinema e del teatro del ’900, con la medesima ironia e disinvoltura con cui circa un secolo fa Joyce faceva il verso ai capolavori della letteratura mondiale nel suo Ulisse. È la parte più notevole del libro, una specie di intenso reportage giornalistico del mondo del cinema e del teatro. Pagine e pagine del romanzo sono dedicate a raccontarci i film che si facevano a Hollywood negli anni ’40, e gli spettacoli teatrali che andavano in scena a New York, a Broadway, o nel West End a Londra negli anni ’50. E quale fosse la vita culturale negli anni ’70 e ’ 80 in una Dublino bohemienne meravigliosa e tremenda. Non stupisce: Anne Enright è nuovo tipo di animale scrittore, ovvero una producer e regista televisiva, con tentacoli anche nel mondo del teatro, dove ha lavorato brevemente come attrice professionista. È chiaro che ha visto molto cinema, ed è evidente che per lei quei media contano più della grande tradizione del romanzo moderno.
Quanto alla sua Attrice, il successo presto sfuma, e a quarantacinque anni la grande star è finita, distrutta dall’alcol, dalla malattia mentale, dalla violenza irrazionale. E la figlia Norah, novella Enea, si carica addosso la “vecchia” madre, nel senso che ne raccoglie i pezzi. Ma non va a fondare nessuna nuova patria. Purtroppo, non vedremo, noi donne del terzo millennio, nessuna nuova “matria”. Nessuna nuova civiltà verrà fondata dalla figlia con sulle spalle il corpo della madre.
Il trionfo, niente affatto eroico, ma prosaico, del romanzo è però in questo: Norah è una figlia vittima priva di risentimento. Niente Melanie Klein. Niente invidia. Né vendetta, né odio. Piuttosto, pietà. E il riconoscimento che benché l’abbia tormentata, la madre le ha mostrato la luce speciale ( radiance la chiama), che viene dalla capacità di trasformarsi propria dell’attore. Che appunto può essere uno, nessuno e centomila.Fatto sta che venticinque anni dopo la sua morte, quando ormai è una donna matura, una moglie felice, una madre equilibrata, con una carriera tutta sua, e delle storie sue da raccontare – perché dopotutto è una scrittrice, la figlia Norah torna al «mistero della madre». Spinta anche dalla studentessa Holly Devane, che sta scrivendo una tesi incentrata sulla domanda: chi è davvero Katherine O’Dell?
Solo che l’ambiziosa futura accademica traduce la domanda ingenua in un ridicolo gergo pseudo-filosofico post-derridiano: vuole «sfatare» il mito, e giungere alla «radicale soggettività» del suo soggetto, e «de-iconizzare» l’attrice, e mostrarla «come un agente attivo nel mondo». Sic! Giustamente, la scrittrice Enright ridicolizza questo nuovo tipo di stupidità intellettuale diffusa, e la figlia Norah se ne sbarazza. E scrive il suo libro. Ovvero, questo romanzo che nelle sue parti migliori è lo studio di una possessione. Chi possiede chi? resta l’enigma.