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 2020  settembre 05 Sabato calendario

Genio e ossessioni di Salvatore Ferragamo

Luca Guadagnino non si sa mai dove sia (adesso ha casa a Milano), ha la virtù di inquietare, irritare, costringere ad accettarlo sia colleghi che critici, comunque sempre dubbiosi. Del suo essere inafferrabile. Dell’usare divi stranieri. Di avere come musa sin dall’inizio la star della cineintellighenzia Tilda Swinton. Di aver conquistato premi e pubblico mondiale con Chiamami col tuo nome, di aver osato di tutto, dalle streghe di Suspiria ai giovinetti innamorati di We are who we are (serial su Sky da ottobre) e pare pure un rifacimento di Scarface. Aggrottando la fronte si bisbiglia che lui, già approdato alla pubblicità con vari spot (gioielli, alberghi, stilisti, e scarpe) porti alla sacra mostra veneziana un lungo documentario, due ore (non uno spot dunque) che sarà pure d’autore, ma che comunque si sospetta molto pubblicitario: fuori concorso per fortuna, ma insomma, invitare questo “Calzolaio dei sogni” (Ferragamo ovviamente) non sarà un gesto azzardato suggerito solo dall’emergenza Covid 19? Guadagnino soavemente nega ogni sottomissione a un marchio, e in più usa come commentatore nel film il venerato collega Martin Scorsese che, come sanno i fan suoi e di Armani, già aveva peccato nel 1999 girando Made in Milan, esaltazione del grande stilista. Poi la pubblicità l’han fatta tutti, da David Lynch a Spike Lee e, via la spocchia, va benissimo perché un film è sempre un film e un autore è sempre un autore. Dice lui: «Mi sono imbattuto anni fa nelle memorie di Ferragamo (ha fatto uno spot nel 2013) e di quell’uomo del passato mi ha incuriosito il mistero del genio, l’ossessione della ricerca, la passione per la perfezione». Indubbiamente il film non venera il marchio di una società quotata in borsa ed in gran parte proprietà della famiglia, ma “ricostruisce la vita straordinaria di quest’uomo del passato, uno di quegli eroi italiani di cui forse si sono perse le tracce”.
Nei saloni del trecentesco palazzo Spini Feroni di Firenze si muove bella gente, signori e signore di potere, giovani dai modi e dai cognomi aristocratici: di San Giuliano, Visconti, ma anche di nobiltà produttiva, appunto Ferragamo. Sono i nipoti, i figli, di quel figlio di contadini poveri i cui fratelli erano già emigrati, nato nel 1898 a Bonito in provincia di Avellino, che sognava di diventare ciabattino e che a 9 anni, in una notte, senza saperne niente, aveva fabbricato due paia di scarpette per impedire che le sorelline facessero la comunione scalze. E qui Guadagnino inserisce un meraviglioso cartone animato anni 20, uno dei tanti ispirati alla fiaba dei Grimm, Gli gnomi e il calzolaio, con gli allegri nanetti che in una notte fabbricano appunto due paia di scarpine. «Ho trovato le immagini primo Novecento di quel paesino del Sud di arcaico abbandono, strade di terra, carretti trascinati dai bambini, donne con la testa coperta dallo scialle nero, come la mamma di Salvatore china sui campi; e mi è piaciuto alternarle con le statue di Rodin, con gli arazzi quattrocenteschi, con gli immensi divani del palazzo fiorentino oggi e quei personaggi che una e due generazioni dopo esprimono cultura e ricchezza».
La maestria del regista è quella di emozionare raccontando una storia di successo oggi irripetibile: quella di un ragazzino cocciuto e indomabile che ha un sogno, e per realizzarlo lascia da solo il paese a 11 anni per cercare lavoro a Napoli, e poi sempre da solo, a 16 anni, sale sul piroscafo Stampalia per cercare fortuna negli Stati Uniti: terza classe, nel ventre della nave, tutti insieme boccheggianti, i miserabili migranti italiani trattati poi all’arrivo come animali misteriosi e pericolosi. Ricorda niente? Ma il genio non ha ostacoli, è ambizioso, vuole la perfezione, appena adolescente rifiuta di lavorare da operaio in una fabbrica di scarpe dozzinali e va all’avventura, verso ovest. Lo vediamo martellare curvo sul suo deschetto con infinita pazienza, una scarpetta alla volta, e per contrasto Guadagnino mostra come si fa oggi una scarpa di lusso. «Ci vogliono tre minuti, ma anche sette macchine diverse e altrettanti specialisti in camice bianco».
Michael Stuhlbarg, il padre di Chiamami col tuo nome, interpreta in inglese i ricordi di Salvatore, a Santa Barbara, poi a Hollywood, la collaborazione col cinema muto, l’invenzione di calzari romani e di stivali da cowboy, e lui con quella faccia da pugile, immigrato dalla massima miseria italiana, ormai è sempre elegantissimo, abito a giacca chiaro, camicia bianca, cravatta di classe, in smoking quando assieme a Dior e alla costumista Irene, nel 1947 riceve il massimo premio americano della moda. La preparazione del film è cominciata tre anni fa, quindi Guadagnino ha avuto il tempo di essere l’ultimo a intervistare la signora Wanda morta poi nell’ottobre del 2018.
Salvatore l’ha sposata nel 1940, e naturalmente lui aveva 42 anni e lei 19, figlia del sindaco farmacista di Bonito, snella e appena uscita dal collegio: colpo di fulmine in un’ora per la fanciulla che gli darà sei figli, tre femmine e tre maschi e che dopo la sua morte a 62 anni continuerà a occuparsi dell’azienda. Per la famiglia lui ha comprato un’antica villa con giardino fuori città e le immagini private «che sono eccezionali e mi hanno permesso di mostrare l’altra vita di Salvatore, la sua felicità domestica, i figli privilegiati allevati come piccoli lord di un padre che bambino non è mai stato, uomo a 9 anni». Oggi Giovanni ha 77 anni, Ferruccio 75, Leonardo 67, Massimo 63. Fiamma è morta nel ’98, Fulvia nell’aprile del 2018. Nati in parte durante la guerra, tutti dopo l’autarchia, anni disastrosi anche per Salvatore che deve produrre le povere scarpe per l’esercito e non ha più i materiali per le sue creazione: niente acciaio niente pelli pregiate: e lui inventa la zeppa di sughero o di corteccia d’albero, le tomaie di cellophane o di corda: sembrano orribili ma tutti le vogliono, e oggi trionfano nei musei del costume.