Tuttolibri, 5 settembre 2020
Storia della svastica
C’è una pagina di Mein Kampf – a cui gli storici hanno prestato meno attenzione di altre – in cui si ricostruisce il processo che portò a una delle invenzioni grafiche più potenti e nefaste del XX secolo: la svastica. Hitler racconta che si scelse il rosso per aizzare i partiti di sinistra, per farli venire alle assemblee, magari anche con lo scopo di ostacolarle. Mancava però un segno distintivo. Il führer non usa la parola marchio, ma si rifà al lessico militaresco, e parla di vessillo. Cerca un segno forte da usare soprattutto per i manifesti. «Fu il mio progetto», dice, descrivendo come, dopo vari tentativi, sia giunto alle perfette proporzioni tra cerchio bianco e croce uncinata. In questo modo, Hitler sta rivendicando meriti da designer o, come si dirà poi, da art director. Quella nazista è la prima immagine coordinata di stato (e forse anche l’unica), cioè un sistema visivo che impiega alcune delle logiche che apparterranno poi, nel XX secolo, alle grandi multinazionali. Non è infatti senza significato che il nazismo avesse pianificato i dettagli della comunicazione visiva proprio come un’azienda progetta il proprio brand. Sembra strano legare un simbolo politico alla pubblicità commerciale eppure è qui il nodo della questione: il nazismo si stava occupando anzitutto di comunicazione di massa; falce e martello sono simboli di natura politica, la svastica è già brand. Il termine viene dal francone brennan che vuol dire «bruciare». Brand è la cosa che brucia, in riferimento alla pratica di marchiare a fuoco il bestiame con un segno grafico che ne rendesse riconoscibile la proprietà. Il brand non è la merce, ma la sua idea psicologica: una multinazionale può infatti possedere piantagioni, laboratori, fabbriche sparse per il mondo, ma è il brand che le fa apparire come un’entità singola, tramite una grafica coerente, compatta e coordinata. Comprendere la vicinanza della logica nazista con le strategie di Coca-Cola, Nike o Chanel è cruciale per coglierne il valore specifico e anche l’enorme portato di persuasione che esercitò negli anni Trenta del Novecento.
Eppure la svastica non è un’invenzione del nazismo: la sua storia si perde nella notte dei tempi e prima di diventare il simbolo del male assoluto ha avuto gli impieghi più diversi. È quello che prova a raccontare Steven Heller in un libro illustrato appena uscito da Utet, Storia universale della svastica, ricostruendone le origini, gli usi più antichi, ma a nche i revival recenti. Heller è rettore della School of Visual Arts di New York. Art director e designer, negli ultimi trent’anni ha pubblicato svariati volumi dedicati alla grafica e alla cultura visuale, in cui ha raccontato il perdurare visivo di segni e simboli di successo. La domanda sottesa a tutto il libro è infatti se sia possibile «redimere» un segno come la svastica, se sia cioè possibile guardarlo con occhi liberi, apprezzarlo per il suo valore formale, puramente grafico. La risposta è negativa. E in fondo non può essere altrimenti. Non esiste nulla che sia puramente grafico. Il design è sempre la forma di un’idea, e storicizzare un segno non significa prenderne le distanze e trattarlo come fatto neutrale, anzi, storicizzare è riconoscere che il contesto e l’immaginario non sono cancellabili: per noi la svastica è il nazismo. Possiamo studiarla, capirla, ricostruirne le origini ma resta, a colpo d’occhio, la sineddoche visiva dello sterminio.Il libro di Heller è un saggio ma è soprattutto un inventario, un campionario, che pesca immagini da latitudini e momenti storici diversi: troviamo la svastica nella cultura dell’India e in quella dei nativi americani, nell’antica Grecia e nella comunicazione di inizio Novecento, quando campeggiava su biglietti di auguri, scatole di biscotti e riviste per boy scout.Tra agli esempi più affascinanti portati da Heller c’è quello di una rivista pubblicata a Philadelphia tra il 1914 e il ’18, organo del Girls’ Club, che metteva in palio una spilla a forma di svastica tempestata di diamanti, molto ambita dalle giovani socie. E poi passiamo al mondo contemporaneo, dove la simbologia non è scomparsa: al lessico visivo nazista si rifanno, in modi diversi, i gruppi nazionalisti dell’Est Europa, il nuovo suprematismo bianco o il microcosmo nerd dell’alt-right, che ha giocato un ruolo importante nell’elezione di Donald Trump. Ed è qui che termina il libro di Heller e forse è anche qui che ha trovato la sua motivazione: nell’orizzonte incerto che la storia ci mette davanti, nelle ombre che l’emergere di nuove destre proiettano sul presente.Dal punto di vista grafico la svastica sembrava relegata all’evocazione visiva del passato: nei film ambientati durante la seconda guerra mondiale o sulle copertine di romanzi e saggi storicamente circoscritti. Sembrava appartenere a un mondo finito. Il libro di Heller in fondo è un monito: passato e presente sono legati da lunghi oblii e repentini revival, nelle idee come nel loro design.