Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 05 Sabato calendario

Un manuale di conversazione

«Solo le parole contano. Il resto sono chiacchiere». Troviamo quest’aforisma di Eugène Ionesco in epigrafe a Il gusto della conversazione, un bel volume di Pierre Sansot del 2003 appena tradotto in italiano sulla scia del successo del precedente Sul buon uso della lentezza, testo cult di tutti coloro che la vita vorrebbero viverla da sé piuttosto che sprecarla, appunto, tutta in chiacchiere e distintivo. Sansot, teorico della passeggiata, della città a misura d’uomo, della semplicità come stile di vita, dell’assaporamento più intenso possibile della realtà umana e sociale, trova che la conversazione fine a se stessa, senza secondi fini, senza scopo di lucro, sia un bel modo di accostarsi agli altri.
Da antropologo oltre che da filosofo, egli pensa che il valore supremo della specie umana sia la reciprocità, una forma di relazione dove il dono, per dirne una, non serve per irretire l’altro sottoponendolo alla propria supposta superiorità, ma per instaurare con esso un rapporto fra pari. Nel dono, si sa, quel che importante è il gesto del donare, per principio ricambiato, e non il valore economico dell’oggetto, il suo essere tristemente monetizzabile. Lo sapevano i polinesiani studiati cent’anni fa da Malinowski. Lo sanno i bambini appena cominciano a camminare, quando ci regalano cose senza senso giusto per instaurare con noi una qualche forma di complicità, di intimità, di umanità. Nella conversazione, secondo Sansot, succede qualcosa del genere: doniamo parole, e ne attendiamo altre in cambio, così, senza guadagnarci nulla di preciso se non una conoscenza affettiva migliore dei nostri interlocutori.
Ma cosa ci dice questo libro di più e di diverso rispetto ai tanti altri che a questo tema sono dedicati? Grosso modo esistono sull’argomento due grandi filoni di ricerca. Negli studi sulla comunicazione va per la maggiore una fine analisi linguistica della conversazione, che cerca di portare alla luce le regole tacite che reggono i turni di parola, le aperture e le chiusure, i gesti d’accompagnamento, gli effetti sociali del parlarsi. La conversazione ha delle ragioni che la ragione non conosce. Così, per esempio, non riflettiamo mai abbastanza sul fatto che uno sguardo all’orologio o verso l’orizzonte sono chiari segnali del fatto che uno degli interlocutori vuole chiudere la comunicazione. Analogamente, l’uso dei luoghi comuni, a prima vista così avversato, è di grande utilità strategica quando un processo di interlocuzione è ai primi passi, non si sa bene cosa dire, e ci si guata reciprocamente per capire come muoversi. In tutt’altro versante, c’è un fior fiore di studi storici sulla cosiddetta «civiltà perfezionata» della conversazione, per i quali nei salotti settecenteschi soprattutto francesi la frivolezza e la mondanità si facevano spesso stimolo inconfessato all’azione politica. L’Ancien régime si sarebbe insomma condannato da solo con le sue pratiche pettegole eppure mai superficiali.
Sansot si colloca un po’ a metà fra queste due posizioni. Da un lato sa bene quanto la conversazione abbia delle precise regole da rispettare che, prima ancora d’essere linguistiche, sono essenzialmente di galateo. Sapersi comportare è capacità pregiudiziale e destino consequenziale al saper conversare. D’altro canto, l’idea della frivolezza come tattica segreta per fare uno scossone allo status quo è senz’altro da accettare, senza però prenderla troppo sul serio. La ghigliottina è troppo spesso dietro l’angolo.
«Ciò che mi meraviglia delle pratiche della conversazione – leggiamo già nelle prime pagine del libro – è che esse non sono caratterizzate da un progetto preciso, non si sottomettono a una determinata idea e, allo stesso tempo, suscitano un’impressione di senso e di coerenza». Nella conversazione, cioè, l’apparente casualità dello scambio comunicativo non è cazzeggio, insulsa, spiritosaggine, perdita di tempo, ma realizzazione segreta di un incontro egualitario. «Una conversazione di qualità comporta battute, rinunce, aperture impreviste e allo stesso tempo non è disordinata, segue un filo invisibile». Diversamente dal dialogo o dal colloquio, che hanno quasi sempre un obiettivo predeterminato, o dalla chiacchiera, che invece si caratterizza come puro spreco di tempo, la conversazione, prima ancora che un sapersi porgere all’altro, è un saper ascoltare, accoglimento sapiente di qualcuno che sta per accostarsi a noi e attende soltanto un nostro piccolo gesto per farlo con la dovuta serenità. Potrebbe essere questa la ragione per cui si conversa fra amici come fra amanti, ma anche col poeta preferito dell’Antichità e, se ci va bene, perfino con Dio.
Allora, un suggerimento. Si dice spesso che i social media abbiamo attivato una grande conversazione collettiva. Certo: ma che i chattatori leggano questo libro. Ne guadagneranno in simpatia, oltre che in buona educazione.