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 2020  settembre 05 Sabato calendario

La Chiesa polacca: «Cliniche per convertire i gay»

Tutta colpa dell’arcobaleno. Non di quello progettato nel 1978 da Gilbert Baker per la Festa della Libertà Gay di San Francisco ma dell’altro, l’assai meno trasgressiva scultura di fiori che la danzichese Julita Wojcik ha donato 9 anni fa a Bruxelles in occasione della presidenza polacca dell’Ue. Quell’arco iridato, tornato a Varsavia nel 2013 e collocato in piazza del Salvatore come simbolo di pace, è diventato, malgrado l’arte impegnata ma non militante della Wojcik, il campo di battaglia identitario di un Paese culturalmente sempre più fratto: danneggiato una prima volta e riparato, bruciato, iconizzato, demonizzato, “Rainbow” è stato infine rimosso per quieto vivere e giace da qualche tempo nel magazzino buio di un museo.
«In questo Paese, traumatizzato dall’esperienza sovietica, le forze di sinistra non esistono e lo scontro sociale è germogliato sul terreno dei diritti, quelli delle donne prima e ora quelli della comunità omosessuale e Lgbt» osserva il giovane sociologo Adam O. in un caffè della capitale, a pochi isolati dai grandi marciapiedi solcati dai monopattini di Nowy Swiat, dove il 7 agosto scorso la polizia ha caricato violentemente un corteo in sostegno di Margot Szutowicz, l’attivista transgender a processo per aver issato il vessillo arcobaleno sulle statue dell’eroe nazionale Joszef Pilsudski, sul busto di Copernico e sul Cristo del Sacro Cuore. Secondo Adam però, anche stavolta l’iniziativa è della destra: «Sono stati il partito di governo “Diritto e Giustizia” (Pis), l’eminenza grigia Jaroslaw Kaczynski e l’appena rieletto presidente Andrzej Duda a evocare la “teoria del gender” come minaccia “straniera” contro una società profondamente legata alla famiglia tradizionale e i liberal, privi di qualsiasi bussola ideologica, hanno reagito a facendo del tema l’estrema trincea della democrazia».
Eccola dunque la nuova cortina di ferro che ferisce la Polonia, le grandi città affacciate sul mondo e l’entroterra, la provincia modernizzatasi con i fondi europei, lo sconfinato feudo del Pis a cui si rivolge l’Episcopato polacco che appena pochi giorni fa ha preso ufficialmente posizione contro il movimento Lgbt, reo, a detta dei porporati, di voler forzare la società alla normalizzazione di comportamenti «moralmente biasimabili». Impermeabili alla scienza, i colleghi dell’arcivescovo di Cracovia Marek Jedraszewski, noto per aver omologato l’omosessualità al bolscevismo, sono intervenuti nel dibattito delle ultime settimane rispolverando addirittura le cliniche per aiutare la gente «a ricredersi sul proprio orientamento sessuale deviato», una variante polacca delle famigerate «terapie di conversione» che il grande pubblico ha scoperto con il film «Boy Erased» e l’Onu ha da poco ipotizzato di mettere al bando su scala globale.
Poco più di 200 km separano la vibrante Varsavia da Jasna Gora, il severo monastero vicino alla Madonna nera di Czestochowa dove i vescovi, riunitisi a fine agosto per discutere gli scandali dei preti pedofili svergognati dal documentario “Hide and Seek”, hanno riproposto la cura dell’omosessualità. Ampie autostrade e statali costeggiate da campi di grano uguali a quelle che lasciandosi alle spalle la capitale, Poznan, Cracovia, Lodz, corrono verso est, il confine con la Bielorussia, case basse, campanili, sinagoghe svuotate dai pogrom e mai ripopolate come a Tykocin, dove i manifesti elettorali di Duda non hanno concorrenza. E poi Bialystok, che ha dimenticato la sua un tempo numerosa comunità ebraica e si è riscoperta xenofoba, omofoba, disposta ad appiccicare ovunque gli adesivi “no gender” distribuiti dal giornale conservatore Gazeta Polska e menare le mani all’ultimo timido Gay Pride. L’estremo oriente polacco, da nord a sud. Il regno dei Comuni auto-dichiaratisi Lgbt-free e finiti per questo nel mirino della Commissione Ue come il meridionale Tuchow, dove il ministro della giustizia Zbigniew Ziobro ha destinato 60 mila euro per compensare i fondi tagliati dalla libertina Bruxelles.
«C’è, sempre più forte, la tendenza a traslocare il centro politico a destra, la battaglia contro il gay è il simbolo di questo smottamento» osserva la docente universitaria e giornalista Katarzyna Kasiowna che, come molti, accompagna i suoi post con un piccolo arcobaleno. Il ristorante dove mangia è lo specchio di Varsavia, giovane, cosmopolita, cattolica sulla carta ma sempre meno praticante, la città che ha messo il proprio sindaco Rafal Trzaskowski a disposizione della sfida presidenziale contro Duda e che l’ha visto perdere per poco anche perché, ipotizza Katarzyna, «non si è speso più di tanto per la campagna Lgbt, non ha mai partecipato a una manifestazione di protesta».
Città contro campagna ma non solo, c’è dietro l’anima di un Paese inquieto, antico e moderno, dove le donne mordono il freno ma i generosi sussidi alla famiglia distribuiti dal Pis sono la bandiera conservatrice che nessun liberal oserebbe ammainare. Un Paese dalla Storia recente sfracellata da due dittature consecutive che non si sente compreso a Ovest e brama un’altra identità a Est al punto da aver creduto al fantasma dell’invasione musulmana, laddove gli immigrati non arrivano all’1% della popolazione, e da credere oggi al complotto omosessuale, il nuovo duro scontro di civiltà.
«Uno dei temi più caldi è l’intenzione del governo di stracciare la Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne già ratificata nel 2015, un testo considerato ostile alla famiglia che comunque lo stesso liberale Tusk, quando era premier, non aveva firmato» nota l’architetto Piet W. passeggiando per la leggendaria e ventosa Danzica, su cui aleggia l’eredità del sindaco amico di migranti e Lgbt Pawel Adamowicz, un centrista avanzato assassinato nell’anno spartiacque 2019, pochi mesi prima del voto europeo cavalcato da Kaczynski come una sorta di referendum sull’identità polacca minacciata dalle ideologie «importate dall’estero».
A Danzica si respira il mondo di oggi e di ieri, Piet e il suo compagno Mateusz eroici nell’ambire al matrimonio come quarant’anni fa i loro concittadini incatenati ai cancelli dei cantieri navali nel nome della libertà. Eppure si cammina sulla nuova frontiera, così vicini e così lontani. E Piet ricorda come nel 2011 fu proprio l’eroe nazionale e premio Nobel Lech Walesa a commentare l’elezione del primo deputato polacco apertamente gay dicendo che avrebbe dovuto sedere in fondo al parlamento o, meglio, «dietro un muro». La casa comune della politica e accanto, insidiosa, la croce.
«Dopo il 1989 prima e poi con la morte di Giovanni Paolo II, la nostra Chiesa, che giocò un ruolo significativo durante la dittatura, contribuendo a costruire la società civile, è tornata ad atteggiamenti ante guerra riscoprendo il linguaggio degli anni ’30 e sancendo la nuova alleanza tra trono e altare» ci dice Adam Michnik, la vecchia guardia dell’anti-totalitarismo irriducibile.
Poi ci sono i giudici, il terzo potere. È per il cuore e la mente della magistratura che si combatte con l’arcobaleno in mano, perché l’indipendenza nell’assegnare pene o cancellarle è il Confine tra passato e presente. A Poznan un tribunale ha autorizzato la bandiera gay davanti al municipio. Altrove è stata vietata. Il futuro per i polacchi è nel vento.