Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2020
A chi giova la danza dell’inflazione
Tanto attesa ma mai arrivata. Sono oltre dieci anni che l’inflazione americana è sotto il target del 2%. La Federal Reserve ha quindi deciso di tramutare questo obiettivo in valore medio, indicando una maggiore inclinazione a permettere che venga superato il target del 2%, se necessario, per periodi limitati di tempo. La Fed si impegnerà a non aumentare i tassi di interesse fino a quando non saranno raggiunti gli obiettivi di inflazione e occupazione.
Oggi, le aspettative sull’inflazione a lungo termine sono basse, cosa che riduce la pressione a spendere o investire. Questo cambio di strategia servirà al recupero di credibilità della Fed e a ridurre i tassi reali americani. Come ricordano da AcomeA Sgr più il tasso reale (tasso nominale meno inflazione) è basso, maggiore è l’effetto dello stimolo monetario e l’incentivo al credito. Visti gli attuali livelli dei tassi, se l’inflazione rimane sotto il target della banca centrale, quest’ultima avrà difficoltà nell’abbassare i tassi reali. La banca potrebbe in teoria tagliare il tasso nominale in territorio negativo, ma per ora la Fed ha escluso questa ipotesi. Inoltre l’aumento massiccio del peso del debito nel sistema finanziario di questi ultimi anni rende l’inflazione uno strumento utile ai governi, perché si tradurrebbe anche in un calo dei tassi reali che gli Stati pagano per il proprio debito.
Ma quanto è rischioso muovere la leva dell’inflazione? Didier Saint-Georges, membro del comitato strategico investimenti di Carmignac, ricorda che è una modalità già utilizzata, ad esempio negli anni ‘80, quando il presidente della Fed Paul Volker ha utilizzato la politica monetaria per far abbassare l’inflazione, dal 13% al 2%.
Ma oggi il mondo e gli Stati Uniti si trovano di fronte a un contesto economico che ha subìto pesanti ripercussioni dalla pandemia. L’attuale recessione potrebbe essere in parte alimentata da aspettative di inflazione che sono ancorate a livelli così bassi da scoraggiare spesa e investimenti.
Viviamo, secondo Carmignac, uno scenario molto diverso da quello degli anni ‘70, quando lo shock petrolifero spingeva al rialzo i costi dell’energia e, allo stesso tempo, penalizzava la crescita economica, creando così uno scenario di “stagflazione”. Volker ha dimostrato che è possibile controllare anche l’inflazione troppo elevata ma si sta dimostrando particolarmente difficile portare l’inflazione al rialzo in un contesto deflazionistico. Anche se la Fed non vede pericoli, per Michael Metcalfe, global head of macro strategy, State Street Global Markets, c’è invece il rischio che l’inflazione possa crescere molto rapidamente e a livelli di inflazione destabilizzanti, soprattutto se si assiste a un calo della fiducia di consumatori e imprese nei confronti dell’impegno delle autorità di produrre esclusivamente una bassa inflazione.
Anche per Pasquale Diana, senior macro economist di AcomeA Sgr, il pericolo, anche se per adesso più teorico che reale, è che una combinazione di ampia liquidità monetaria, di crescita economica sopra le attese e di problemi dal lato dell’offerta di beni sia talmente inflattiva che la situazione potrebbe sfuggire di mano.
Nei mercati emergenti spesso le svalutazioni creano inflazione anche in condizioni di economia debole. Ma in un’economia in recessione, è difficile che i salari possano tenere il passo dell’inflazione e se lo facessero, probabilmente perpetuerebbero il trend di inflazione. Per la banca centrale ci sarebbero scelte difficili da compiere: rialzare i tassi per combattere l’inflazione, con il rischio di peggiorare la recessione? Oppure prendere tempo con il rischio che l’inflazione vada fuori controllo?
Se l’obiettivo della Fed sarà raggiunto in modo controllato il fatto di avere un po’ più di inflazione non peserà in modo negativo sui mercati ma è chiaro che con il ritorno dell’inflazione l’asset class che sarà più penalizzata è la liquidità che giace sui conti correnti.