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 2020  settembre 04 Venerdì calendario

Addio alle riviste e alla civiltà delle idee

La notizia che ha chiuso i battenti “Le Débat”, una delle ultimissime riviste europee dedicata alle idee degli uomini che vivono in società e si azzuffano e si dannano, è di quelle che riassumono un’epoca e la connotano.
Ossia quanto sia radicale il passaggio dalla maniera novecentesca, quando la comunicazione di qualità camminava sulla carta delle riviste e dei giornali di opinione, e la maniera da terzo millennio, quando la comunicazione è dominata dai click dei telefonini e dai tweet battuti alla velocità del lampo tanto dal presidente degli Usa quanto da un misirizzi qualunque.
Si sfasciano e cadono gli ultimi bastioni della cultura umanistica, soverchiata dai medici che salvano le vite, dagli ingegneri che costruiscono micidiali aerei da combattimento, dai nativi digitali che sanno tutto della topografia di un computer e non chi ha ucciso Aldo Moro. C’ero stato, una trentina di anni fa, a rue Sébastien Bottin, dov’era la sede della casa editrice Gallimard e dunque la redazione di “Le Débat” cui faceva la guardia Marcel Gauchet, un quarantenne liberal che si teneva fuori dal gioco delle fazioni intellettuali del tempo. È stato lui ad abbassare per sempre la serranda della bella rivista parigina. Non c’è più il pubblico cui offrire prodotti del genere, non c’è più il pubblico atto ad assorbire le valenze della battaglia delle idee. Del resto è quello che è accaduto all’editoria di qualità, dove i saggi destinati ai colti vendono in media la metà di un tempo.
Il Novecento, quello che in tanti hanno chiamato il Secondo Rinascimento, è stato il secolo della radio, della fotografia, del cinema, delle storie a fumetto, più tardi della televisione e persino del computer. Ma è stato innanzitutto il secolo delle riviste, comprendendo nel novero i settimanali di qualità. Tutto nasceva da loro, passava da loro. Fogli di carta ma che ti bruciavano le dita. Nasce da un giornale politico straordinariamente aggressivo, il milanese “il Popolo d’Italia”, il destino di uno degli uomini che hanno modellato il secolo, il giornalista Benito Mussolini, più tardi il più giovane capo di governo che ci fosse mai stato al mondo, e di cui Antonio Scurati ha raccontato benissimo la saga assieme feroce e geniale.
Nasce a Firenze “La voce” di Giuseppe Prezzolini, una rivista e relativa casa editrice da cui si dipartirono tanto i fascisti che gli antifascisti, tanto Mussolini quanto Gaetano Salvemini. Nasce a Torino un organo a stampa, “L’Ordine Nuovo”, che raduna e mette in azione i talenti più straordinari dell’italocomunismo – Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini – ossia del Partito comunista più importante e vitale del mondo.
Si avvalgono di riviste, giornali, volantini distribuiti per strada, plaquette in poche copie i movimenti di avanguardia che hanno tinto di sé gli umori del Novecento dall’inizio del secolo fino alla Seconda guerra mondiale, i futuristi come i surrealisti. Montagne di riviste che durano ciascuna pochi numeri scandiscono il loro cammino, le loro zuffe, i surrealisti che si spaccano tra quelli favorevoli alla Rivoluzione d’Ottobre e quelli che la avversano, i futuristi che se la prendono con il piatto di spaghetti che gonfia la pancia e quelli che ne decantano le qualità, i fascisti alla Curzio Malaparte e quelli alla Telesio Interlandi, gli antifascisti italiani che tengono in gran conto la Rivoluzione d’Ottobre e quelli che reputano imprescindibile il “socialismo liberale” teorizzato da Carlo Rosselli in un libro pubblicato in Francia nel 1931.
A ciascuno di quei gruppi, a ciascuna di quelle fazioni, a ciascuno di quegli assembramenti corrisponde un indirizzo redazionale, il titolo di una rivista, le sue poche copie che è un’impressa dell’altro mondo riuscire a distribuire e vendere ma che ne vale la pena. E mentre c’è un italiano sui generis, un fascista che è costituzionalmente un antifascista, un genio nell’inventarsi titoli e copertine e slogan promozionali, che crea dal nulla un settimanale che fa da incubazione dei migliori settimanali italiani del dopoguerra, l’ “Omnibus” di Leo Longanesi.
Arrigo Benedetti, il fondatore dell’ “Europeo” e dell’ “Espresso” mi aveva raccontato di come Longanesi gli avesse insegnato a “tagliare” le fotografie da mettere in pagina in modo da renderle più drammatiche, più eloquenti, più espressive. 
A Seconda guerra mondiale conclusa, immediatamente la parola passa dalle mitragliatrici e dai carri armati alle pagine di carta di giornali e riviste che covano gli orientamenti delle generazioni intellettuali in campo. A Parigi nasce “Temps Modernes” (è morta definitivamente un paio d’anni fa ma era in coma da decenni) con cui Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir raccomandano di non dir male della Russia sovietica perché ciò turberebbe i sonni degli operai comunisti francesi.
A Milano nasce “Il Politecnico” diretto da Elio Vittorini, un comunista “sentimentale” che crede di poter prolungare in materia culturale le alleanze della coalizione antifascista, ciò di cui verrà presto deluso oltre che personalmente offeso da Palmiro Togliatti, uno dei pochi commensali politici di Stalin sopravvissuti alla sua voracità criminale. Per quel che è dell’Italia saranno anni in cui diventa editorialmente e intellettualmente difficile collocarsi in una posizione “terza” rispetto ai due blocchi che si fanno la guerra 24 ore al giorno, i comunisti e i loro avversari.
Lo fa “il Mondo” di Mario Pannunzio (altro allievo di Longanesi) che vende sì e no diecimila copie, lo fa “Tempo Presente”, la preziosa rivista fondata nel 1956 da due intellettuali “terzi”, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, una rivista che la formidabile macchina di comunicazione orchestrata dal Pci accuserà di aver preso soldi dagli americani. Avevano fatto benissimo a prenderli pur di esistere e campare.
È ancora sulla carta delle riviste che verranno scritte le pagine più belle di quanti sono rimasti sgomenti innanzi ai carri armati sovietici che irrompevano sulle strade di Budapest nel 1956. Da socialista, il Raniero Panzieri del Supplemento scientifico di “Mondo operaio”, il mensile del Psi che finalmente si è “sciolto” dal giuramento pro-stalinista, orchestra quelle pagine a dare l’avvio a quel “revisionismo socialista” che è la tappa più importante nella storia della Prima Repubblica e nella fondazione di una moderna cultura riformista.
“Tempo Presente” chiude nel 1968. Sono adesso in prima fila generazioni nuove, elettrizzate da umori e esperienze esemplari di sinistra e ultrasinistra. Tutto era cominciato da una rivista dal titolo “Quaderni rossi” fondata ancora da Panzieri nei primissimi anni Sessanta sulla scia delle furibonde rivendicazioni salariali degli operai torinesi. Ne usciranno cinque numeri venduti in poche migliaia di copie, e tuttavia la loro influenza sarà enorme. Più un fatto di suggestione che un fatto di valutazione attenta e rigorosa, una valutazione che non poteva prescindere dal fatto che la Torino operaia è una cosa e il resto dell’Italia tutt’altra cosa.
Dai “Quaderni rossi” diramano fin nel titolo i “Quaderni piacentini” di Piergiorgio Belloccchio e Grazia Cherchi, la più bella e la più colta delle riviste che infiammarono il Sessantotto italiano. Seppure abitassi in fondo allo stivale (a Catania) e a quel tempo i libri arrivano nelle librerie catanesi due settimane dopo rispetto a Roma e a Milano, non me ne ero stato con le mani in mano e avevo fondato dal nulla “Giovane critica”, un trimestrale di cui tra 1963 e 1973 usciranno 37 numeri, e a me fa molto piacere quando qualcuno mi denomina “quello di ‘Giovane critica’ “. La chiusi quando dentro me il Sessantotto era bell’e morto e sepolto. Le avevo impresso una sterzata a 180 gradi quando avevo rivolto un questionario a tipini quali Giorgio Amendola, Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo, i campioni del moderno riformismo italiano. In quell’occasione uno dei miei compagni di generazione mi scrisse che avrebbe preferito “la pederastia passiva” al veder la sua firma accanto a quei figuri.
Poco dopo entrai a far parte della squadra del “Mondoperaio” diretto da Federico Coen, la più bella rivista politica italiana dei secondi anni Settanta. Prendemmo di mira la supremazia culturale dei comunisti nella sinistra italiana e demmo botte da orbi. Erano tempi in cui se ti azzardavi a dire che Lenin non era un leader e un intellettuale dei più gentili, dagli intellettuali del Pci ti replicavano con insulti a fiotti. Dio, quanto appaiono remoti quei tempi.
Alcuni di noi che erano stati nei paraggi del Psi craxiano si delusero a un certo punto dell’arroganza del vertice craxiano che era arrivato a trattare a pesci in faccia persino Norberto Bobbio. Ci mettemmo d’accordo a fare un mensile politico/culturale che avesse un’identità terza rispetto e ai comunisti e ai socialisti di partito. Il titolo ne era “Pagina”. Lo dirigeva il mio amico Ernesto Galli della Loggia, in redazione c’erano Paolo Mieli e Massimo Fini. Durò una decina di numeri, non più di tremila copie vendute a botta.
È un’esperienza di cui a tutt’oggi sono orgoglioso. Eugenio Scalfari ci chiamava “Quelli di Pagina”, e azzeccava. Per quel che riguarda la mia storia personale, la primazia delle riviste per me finì in quel momento. Con la morte di “Pagina” nei primi anni Ottanta. Lo dico con dolore.