La Stampa, 4 settembre 2020
Così sognava il Medioevo
Nel Medioevo sognavano come noi? La risposta è: sì e no. I sogni sono popolati dagli episodi e dagli oggetti della nostra vita quotidiana, e lì le differenze sono evidenti. Una notte il re di Francia Carlo VI sognò che gli regalavano un magnifico falcone, e che partiva subito a caccia per provarlo; il falcone però si perdeva in un bosco, lui era costretto a scendere da cavallo e non riusciva a raggiungerlo, ma gli veniva incontro un cervo con le ali, e lui montando in groppa riusciva a raggiungere il falcone in volo. Il re si svegliò così emozionato che non riusciva a smettere di ripensare a quel sogno, e lo raccontò a tutti, compreso il cronista Froissart, che l’ha raccontato a noi. Ora, non c’è dubbio che anche oggi uno dei sogni più ricorrenti è quello di volare, ma è difficile che qualcuno di noi sogni cervi o falconi, con cui invece un nobile del Medioevo aveva a che fare tutti i giorni. Ma se il contenuto dei sogni poteva essere diverso, la meccanica era la stessa. Tutti abbiamo esperienza di certi sogni di cui al risveglio ci si ricorda solo una scena: c’era qualcuno, ha detto una certa frase, e noi ci svegliamo con quell’immagine e quelle parole in testa. Il regista Oliver Stone lo ha raccontato in questi giorni in un’intervista: «Una notte ho sognato mio padre. Si è seduto sul mio letto e mi ha detto con il suo ghigno luciferino: “Sei l’ultima persona che pensavo potesse sfondare... Stronzetto schizzato"». All’inizio del Trecento, in Francia, il vecchio sire di Joinville scrisse la vita del re santo, Luigi IX, di cui era stato amico. E la concluse raccontando che un giorno lo aveva sognato, tanti anni dopo la sua morte: «E nel sogno mi sembrava di vederlo davanti alla mia cappella, a Joinville, e mi sembrava tanto allegro e contento; e anch’io ero contento perché lo vedevo nel mio castello, e gli dicevo: Sire, quando partirete da qui, vi ospiterò in una mia casa che ho in un mio villaggio che si chiama Chevillon. E lui mi rispose ridendo: Sire di Joinville, in fede mia, non ho intenzione di partire così presto di qui».
Il meccanismo, come si vede, è lo stesso; ma l’uso che poi facciamo di questi sogni è diverso. Oliver Stone ragiona sul suo rapporto freudiano con il padre; Joinville pensa che il re gli abbia mandato un messaggio dall’altro mondo, e si sia invitato a casa sua; e provvede di conseguenza, istituendo a sue spese un altare dedicato a san Luigi nella cappella del castello. Perché nel Medioevo, come nell’Antichità, si pensava che i sogni venissero dall’esterno, dell’inconscio non avevano mai sentito parlare; e trattandosi di messaggi, avevano bisogno di decodificarli. Per noi è un guaio, perché raccontando un sogno si tende sempre a razionalizzarlo in base alle nostre aspettative, e così i sogni che s’incontrano nelle cronache e nella letteratura antica e medievale sono sempre troppo logici e di significato troppo trasparente.
Il cronista Rodolfo il Glabro racconta, nell’XI secolo, di un contadino di nome Leutardo, che un giorno si addormentò nel campo in una pausa del lavoro, e sognò che uno sciame di api gli entrava nel corpo, dal basso, e usciva dalla bocca dopo averlo tormentato. Al risveglio, il contadino divorzia dalla moglie, va in chiesa e tira giù il crocifisso spezzandolo, poi comincia a predicare alla gente, esortandola a non pagare le decime; i villici ignoranti lo scambiano per un profeta, finché il vescovo, avvertito, non li convince che è un pazzo, e Leutardo abbandonato da tutti si uccide gettandosi in un pozzo. Il sogno delle api è un’invenzione suggestiva, ma è troppo carico di significati puntuali, a partire dall’orifizio sbagliato, e satanico, che le api scelgono per entrare nel corpo del disgraziato.
I letterati del Medioevo procedevano dunque a inventare i sogni quando ne avevano bisogno. Qualche volta con risultati straordinari, come Christine de Pizan, la prima donna al mondo che si sia mantenuta con i guadagni dei suoi libri. Per raccontare com’è che, rimasta vedova, aveva dovuto darsi da fare per tirare avanti la famiglia, ricorre innanzitutto a un’allegoria, raccontando che era imbarcata su una nave assalita dalla tempesta, e il cui buon capitano era sparito tra i flutti. Poi però nell’allegoria subentra un sogno: io, dice Christine, a forza di piangere mi sono addormentata, e in sogno mi è apparsa la Fortuna. Qui bisogna chiarire che per la gente del Medioevo la dea bendata non era solo una dispensatrice di gettoni d’oro, come per noi: la Fortuna significava tutti i cambiamenti drammatici che stravolgono la nostra vita, in meglio ma anche in peggio. Christine, dunque, sogna la Fortuna che comincia a maneggiarla, toccando tutte le sue membra. Al risveglio, dice, mi sono accorta che avevo perduto l’anello nuziale, e mi sono sentita trasformata, la faccia più dura, le membra più forti, la voce più grossa: ero diventata un uomo. E un uomo non piange: ho preso chiodi e martello e mi sono messa ad aggiustare la nave.
Ma anche la Commedia è un sogno. Dante non lo dice espressamente, ma semina tutti gli indizi necessari: proprio all’inizio dell’Inferno dichiara che si è smarrito perché moriva di sonno, e alla fine del Paradiso Beatrice gli dice che è ora di sbrigarsi a concludere il viaggio, perché sta per svegliarsi. Ed è in sogno, dunque, che Dante vede le famose tre fiere, la lonza, il leone e la lupa: croce e delizia dei commentatori, perché cosa vogliano dire veramente non l’ha capito nessuno, e, anche se è duro ammetterlo, in questo primo assaggio del poema Dante non è ancora quel maestro smagliante della parola che diventerà di lì a poco. La verità è che incontra tre fiere perché anche Carlo Magno nella Chanson de Roland vede in sogno tre bestie, un orso, un leopardo e un veltro; e Dante, che aveva letto quasi tutto quello che si poteva leggere ai suoi tempi, conosceva anche quel capolavoro all’epoca quasi dimenticato.