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 2020  settembre 04 Venerdì calendario

Un anno del Conte II

Si è già messo alle spalle premier dalla storia di Ciampi, Cossiga e perfino Cavour: sono durati al governo meno di lui. Insegue da vicino, più modestamente, la decima posizione del senatore Renzi. Ma vede lontanissimo il terzetto di testa: Berlusconi, Andreotti e Alcide De Gasperi. Soprattutto – e questo potrebbe esser davvero fonte di rammarico – è ancora assai indietro rispetto al suo inconsapevole modello: Agostino Depretis, il presidente del Consiglio al quale viene fatta risalire la pratica del trasformismo.
Il Conte2 taglia il traguardo del primo compleanno ma il suo titolare – Giuseppe Conte, appunto – tre mesi fa aveva già soffiato sulle candeline del suo secondo anno da premier: ed è onestamente difficile dire quale delle due notizie sorprenda di più.
Però con le notizie – insegnano i bravi direttori – non si polemizza: dunque stiamo ai fatti. Il governo cosiddetto giallorosso giurò nel Salone delle feste il 5 settembre dell’anno pre-Covid 2019 e compie dunque un anno, pericolosamente vissuto giusto a cavallo dell’esplodere della pandemia: sei mesi di qua e sei di là.
Bisogna per forza ripartire da qui: ricordando che 35mila morti in sei mesi e un Paese semisepolto dalle macerie economiche del suo terzo dopoguerra, rappresentano uno tsunami capace di cambiare il corso di qualunque governo. In meglio, raramente; o in peggio, più inevitabilmente. E in fondo è questo l’interrogativo irrisolto, perché ogni risposta non avrebbe controprova: il governo che compie un anno, è stato frenato o paradossalmente sostenuto dal virus emigrato dalla Cina? La domanda, per alcuni, può effettivamente sembrare retorica: ma stiamo ai fatti.
Il governo giallorosso nacque come nacque, cioè con nessuno che lo voleva – a cominciare da Di Maio e Zingaretti – e con l’uomo che ne determinò la nascita (Renzi) che a cose fatte lasciò il suo partito e se ne andò all’avventura. I soliti gufi dissero “saranno guai”, ma facendola breve: dopo ci fu la devastante sconfitta nelle elezioni umbre con annessa foto di Narni; i primi smottamenti nei Cinquestelle; la guerra senza quartiere su giustizia e prescrizione; le dimissioni di Di Maio da capo politico del Movimento. Solo la vittoria a gennaio di Bonaccini in Emilia Romagna sembrò forse capace – in questa ricostruzione che pare giungere dalla preistoria – di tenere in vita un organismo nel quale erano ormai evidenti violente forme di rigetto.
Ma poi su tutto, all’improvviso, calò il buio.
È in quel buio, nei giorni drammatici delle bare e del lockdown, che il profilo di Giuseppe Conte e dei suoi ministri giallorossi trasfigurò in qualcosa di inevitabilmente diverso. Per mesi e mesi, Dpcm dietro Dpcm, hanno dettato forme e tempi della vita degli italiani: si esce o non si esce, si apre o si chiude, si lavora o si sta a casa... Circondato dal virus e da notizie di morte, il Paese ha deciso di fidarsi: e si è affidato a medici e ministri, riscoprendo e sperando nel valore delle competenze.
Non è stato un errore, come testimoniano oggi la situazione italiana e quella – peggiore – di molti altri Paesi vicini e lontani. Ma il crepuscolo dell’emergenza sta portando con sé molti altri tramonti: a cominciare dall’esaurirsi della delega in bianco concessa a Conte e ai suoi ministri.
E cosi, un governo sopravvissuto a se stesso per il dilagare di un virus che gli faceva strage intorno, è dovuto tornare a fare i conti con la propria evidente fragilità. Non che con la fine del lockdown sia andato tutto storto, s’intende: e si pensi alla battaglia vinta in Europa sui fondi da stanziare per l’emergenza Covid. Ma proprio l’uso e la destinazione della pioggia di miliardi in arrivo (come? a chi? con quali progetti?) ha cominciato a risollevare il velo sulle troppe contraddizioni di una maggioranza nata dalla paura del voto e mai riuscita a darsi un po’ di coraggio.
Paradosso per paradosso, si può senz’altro dire che a tenere in piedi il fragilissimo castello – soprattutto nei secondi sei mesi – sia stato proprio Giuseppe Conte: l’uomo-simbolo dell’ambiguo stato di necessità che generò l’esperienza giallorossa. Per capire meglio, torniamo a marzo, nel pieno del buio, quando nessuna luce si scorgeva in fondo al tunnel.
La sua faccia a reti unificate nel cuore della notte. L’aria spesso stravolta. Restrizioni annunciate con espressione dolente e preoccupate. «Stiamo lontani per tornare vicini». Appelli alla prudenza con il modo del buon padre di famiglia. E poi gli aiuti: 16 marzo, 25 miliardi col Cura Italia; 6 aprile, 400 miliardi col Decreto liquidità; 13 maggio, 55 miliardi col Decreto rilancio... E i bonus, naturalmente: di tutto di più. Soprattutto di più.
Se ci fosse stato un “politico di professione” a guidare il governo nei giorni in cui gli italiani se ne stavano disperati a cantare sui balconi, probabilmente si sarebbero fidati di meno.
Chi era infatti Conte fino a un paio di anni fa? Un avvocato più o meno come tanti, uno normale, niente di più. Anzi, uno normale travolto da un’emergenza da non augurare a nessuno. Il premier si mostrava in tv e il consenso cresceva. «Sta facendo quel che può». Le opposizioni osservavano sgomente l’escalation non sapendo cosa fare. E intorno a lui, Giuseppi, si moltiplicavano i paragoni: Conte-Rumor, Conte-Andreotti, perfino Conte-Moro, pace all’anima sua.
Assieme all’emergenza ora svaniscono anche tante esagerazioni. Di Conte e del suo ruolo, dirà la storia. Del governo festosamente in carica nel suo primo compleanno, racconterà la cronaca. Sono stati mesi irripetibili, è vero: ma non per questo ingiudicabili. E non è solo l’esecutivo a meritare un esame e un voto. La parabola di Giuseppe Conte, in fondo, dovrebbe rappresentare per i tanti leader veri o presunti che calcano il palcoscenico, quel che la “piccola Atalanta” è certamente stata in Champions per molti grandi e blasonati club: uno schiaffo in faccia. Ed una buona unità di misura, contemporaneamente, del loro stesso valore...