Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2020
La stampa in 4D
Quando le Forze armate statunitensi e la Nasa investono su una tecnologia è il caso di drizzare le antenne. Se organizzazioni di quel calibro si muovono è scontato che, presto o tardi, ciò che nasce dai loro laboratori troverà la strada dell’industrializzazione e dell’impiego in prodotti di consumo. È stato così per la robotica, per lo sviluppo di nuovi materiali, per la manifattura additiva e, ora, per quella che ormai tutti chiamano stampa 4D. Di che si tratta? A parlarne per la prima volta e a darne una definizione è stato nel 2013, in un Ted Talk ritenuto memorabile dagli addetti ai lavori, Skylar Tibbits, giovane e geniale designer e informatico a stelle e strisce, fondatore del Self-Assembly Lab al Mit di Boston, dove nascono oggetti capaci di modificarsi da soli per svolgere funzioni multiple.
Il concetto del 4D, a parole, è semplicissimo: si tratta di unire la tecnologia della stampa 3D con quella di materiali “smart”, chiamati così perché in grado di modificare alcune caratteristiche, in particolare la forma, se sottoposti a stimoli esterni come temperatura, umidità, corrente elettrica o radiazioni luminose. Stampando in 3D questi materiali “intelligenti” è possibile ottenere oggetti che poi, usciti dalla stampante, in determinate condizioni possono mutare la loro forma, aggiungendo alle coordinate spaziali una quarta dimensione, quella del tempo in cui si realizza la loro trasformazione.
Produrre oggetti 4D che abbiano le caratteristiche progettate sulla carta non è però semplice come dirlo. Nasa ed esercito americano hanno concentrato i loro investimenti sullo sviluppo di tessuti stampati in 3D in grado di modificarsi, per aggiungere protezione a navicelle spaziali, astronauti e soldati in situazioni di necessità o di pericolo. La difficoltà consiste nel mettere a punto materiali, in particolare quelli “a memoria di forma”, capaci di rimodellarsi in modo prevedibile agli stimoli esterni e utilizzabili nelle stampanti 3D. Di questi materiali occorre conoscere alla perfezione il comportamento, sia per sfruttare al meglio le trasformazioni fisiche che subiranno dopo la stampa sia per capire come modulare lo stimolo esterno – calore, luce, umidità o corrente elettrica – necessario a indurre la trasformazione.
Facciamo un esempio, per capire meglio. Lucia Zema è ricercatore nel laboratorio di Tecnologia farmaceutica del Dipartimento di Scienze farmaceutiche dell’Università Statale di Milano diretto da Andrea Gazzaniga. Il team di cui fa parte sta esplorando da qualche tempo l’impiego della manifattura additiva per realizzare medicinali “4D” in grado di rilasciare il principio attivo nell’organo da curare, proprio utilizzando polimeri a memoria di forma e, in particolare, un grado di Pva, polivinilalcol, già approvato per uso farmaceutico. «Abbiamo pensato – spiega Zema – di sviluppare oggetti configurati in modo da consentirne la ritenzione in organi “a lume”, come lo stomaco o la vescica, ma programmati in modo da assumere una forma temporanea per facilitarne l’introduzione: all’interno di una capsula, nel caso dello stomaco, o attraverso un catetere, per la vescica. Una volta giunti a destinazione, riprendono la loro forma originaria e restano all’interno dell’organo, senza essere espulsi, per consentire il rilascio modulato nel tempo e in dosi calibrate di farmaci specifici. I vantaggi rispetto ai metodi tradizionali di somministrazione sono un’azione meno invasiva, progressiva, oltre al contenimento degli effetti collaterali indotti dai farmaci». Finito il loro compito, questi dispositivi si disgregano e non lasciano traccia.
Il laboratorio di Tecnologia farmaceutica ha vinto un bando interno dell’Università di Milano per sviluppare questo tipo di soluzione in stampa 4D e ora sta conducendo studi di tossicità cellulare in collaborazione con esperti dell’Ospedale Sacco di Milano. «Abbiamo riscontrato anche un certo interesse da parte di gruppi farmaceutici – dice Zema -, ma al momento ancora a livello di contatti preliminari». L’esempio milanese è emblematico di quello che, al momento, è lo sviluppo della stampa 4D. In tutto il mondo si registra un numero crescente di ricerche, ma le ricadute industriali al momento sono ancora poche. «Questo perché – spiega Marinella Levi, fondatrice del laboratorio di Chimica e Caratterizzazione dei Sistemi Polimerici del Politecnico di Milano ed esperta nello sviluppo di “smart material” per la stampa 3D e 4D – parliamo di un settore di ricerca per nulla semplice e molto costoso. Dopo una prima ondata di euforia, scatenata anche dall’entusiasmo prodotto da personaggi come Tibbits, sono emerse le difficoltà di un campo di studio molto variegato, che unisce stampa 3D ai materiali smart».
Ma le promesse restano notevoli. «Personalmente – dice Levi – vedo impieghi soprattutto nella robotica soft, in macchine autonome morbide, prive di motori o attuatori meccanici, come protesi innovative o dispositivi per il rilascio di farmaci. E poi nel 4D bioprinting, cioè la stampa 4D con polimeri biocompatibili». L’orizzonte è produrre oggetti dotati di un’intelligenza intrinseca, senza la necessità di introdurre una parte elettronica, sensori o batterie. Strutture capaci di autoassemblarsi o di curarsi da sole, tubazioni che si muovono in modo simile all’intestino per favorire il transito del materiale che trasportano o adattare la sezione al flusso momentaneo, abiti capaci di modellarsi sul corpo di chi li indossa. I campi di applicazione più promettenti? Robotica, aeronautico, spaziale, difesa, arredamento e medicale.