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 2020  settembre 03 Giovedì calendario

Il ritorno del giaguaro in Argentina

«Stiamo lavorando perché il nostro lavoro non serva più. Ma è una cosa bella». La biologa Magalí Longo, nel parco nazionale di Iberá, in Argentina, osserva cinque giaguari dentro un grande recinto. Insieme a un’altra dozzina di persone studia i loro movimenti, per capire se saranno in grado – un giorno, prima possibile – di tornare in libertà, nella terra che popolavano fino a una settantina d’anni fa. Ma dopo una vita chiusi in gabbia hanno perso i loro istinti: devono reimparare da capo a cacciare in autonomia e a riprodursi. Per quei cinque grandi felini, raccattati dai parchi zoologici in giro per il Sudamerica, è un’impresa. Tobuna è arrivata da uno zoo argentino, sovrappeso e letargica; Nauhel era tormentato dal mal di denti; Jatobazinho, venuto dal Brasile, nel 2017 stava per morire di fame e non sa più procurarsi il cibo da solo.
Ma la guerra, diceva qualcuno, si fa coi soldati che si hanno. E questi «hanno tutti delle storie piuttosto traumatiche alle spalle», racconta Sebastián Di Martino, responsabile del progetto della fondazione Rewilding Argentina. Che non ne ha trovati altri per combattere la sua battaglia ultra ambiziosa: ripopolare un enorme parco nazionale argentino con i grandi felini (a rischio estinzione) un tempo simbolo della zona, allontanati da decenni di agricoltura, industrializzazione, bracconaggio. Cioè dall’uomo.
«Stiamo riparando il danno che abbiamo fatto», spiega Longo al New York Times, illustrando il piano nato nel 2015: fare in modo che i cinque «gattoni» si riproducano, e la loro prole pian piano si abitui a cavarsela senza l’aiuto degli umani, impadronendosi del territorio lasciato loro, 260 mila ettari totalmente disabitati, in una riserva naturale di 1,3 milioni. Reintrodurli nel loro habitat: era questo il sogno di Douglas Tompkins, imprenditore dell’abbigliamento con Patagonia e North Face e filantropo, morto nel 2015. Insieme alla moglie Kristine dal 1997 hanno comprato centinaia di migliaia di ettari di terreno in Cile e in Argentina (tra molte diffidenze di chi pensava volessero imbottigliare l’acqua sorgiva e venderla negli Usa) per restituirli al governo argentino e indirettamente ai loro primi proprietari, gli animali selvatici. «Un paesaggio senza fauna – ha detto lei una volta – è solo uno scenario».
Ma il conservazionismo non può essere passivo: «Starcene in trincea a resistere e basta», dice Di Martino, «non è abbastanza: dobbiamo andare oltre, combattere». Ripopolare.
I primi giaguari, se saranno in grado di procurarsi delle prede da soli, se avranno di nuovo voglia di portare a termine il complicato corteggiamento, saranno liberati in questo paradiso naturale di boschi, paludi e laghi per la fine dell’anno o a inizio 2021, con l’obiettivo che diventino un centinaio nei prossimi decenni. Da «grandi predatori» serviranno a riequilibrare un ecosistema sbilanciato a favore di grandi erbivori e caimani. E gli abitanti della provincia di Corrientes, lì intorno, non hanno paura: anzi, non vedono l’ora. «Da qui se ne andavano tutti», dice la vice-sindaca di Colonia Carlos Pellegrini, «mentre adesso l’80% dei cittadini lavora nel turismo generato dal parco», già ripopolato con lontre giganti di fiume, formichieri, pappagalli verdi, capibara. L’intento è di costruire «una destinazione di ecoturismo di livello mondiale, collegandola alle Cascate dell’Iguazú». Altroché Tiger King.