la Repubblica, 3 settembre 2020
Che belli i film visti dal lettino
Sono sicura che siano i film a scegliere di distendersi sul lettino dello psicoanalista, naturalmente se è Vittorio Lingiardi, e non il contrario: perché lui ama troppo il cinema per imporgli la sua scienza, e immagino che alla fine l’incontro sia spontaneo, naturale, voluto da ambedue in affettuosa comunicazione. Lo schermo si pone e pone dei quesiti che sfuggono anche agli appassionati, a meno che non sappiano affrontarlo con gli strumenti della psiche per rivelare ciò che nasconde a noi, a me, cinefila dalla nascita, superficiale al punto da trarre piacere da qualsiasi cosa veda, anche una bruttissima.
Lingiardi è un amico generoso di tanti, intellettuali e no, e anche, per bontà d’animo, di signore malmesse, e nasconde, dietro la preparazione di mirabolanti minestre di funghi e castagne e altre golosità di sua sola conoscenza, l’essere psicoanalista e psichiatra, docente universitario, poeta dell’amore, saggista dei diritti civili, e da qualche anno scrittore di cinema: e tutta questa sua ricchezza, non solo la psicoanalisi, lo accompagna al cinema, lo rende uno spettatore privilegiato, un magico novelliere. Non un critico, una professione che richiede un diverso impegno, un’altra cultura, una freddezza che tiene a distanza certe debolezze dell’anima, se no che critico sei? Sin dal primo psycho, perfetto titolo della sua rubrica su il Venerdì, pubblicato il 20 ottobre 2015, il suo punto di vista ha conquistato i venerdiani.
Il cinema, come temo tutto ciò che in qualche modo non dovrebbe solo distrarre ma anche impegnare il pensiero, chiede riflessione, sfiora il cuore, non svanisce all’istante, ti resta dentro; per ore, giorni, decenni. Tutti abbiamo i nostri tesori: ci sono immagini dello scemissimo Violette nei capelli (1941, regista Bragaglia) o del potente Il nastro bianco (2009, regista Haneke), tutti e due in bianco e nero, che insensatamente riaffiorano in me. Ognuno ha i suoi demoni, assieme agli stupori dell’infanzia o all’orrore per la crudeltà umana. Ci sono stati tempi in cui guai se non avevi letto il Sadoul e non frequentavi i cineclub che erano dovunque, dove potevi vedere per esempio i 49 secondi di L’arroseur arrosé, una delle prime pellicole dei fratelli Lumière inventori del cinema, presentati nel 1895 a Parigi, mentre lo stesso anno, ricorda Lingiardi, a Vienna Freud pubblicava il suo Progetto di una psicologia ed eseguiva le prime interpretazioni dei sogni. Era quindi già dall’inizio necessario l’incontro tra due modi di raccontare ciò che si vede e ciò che si nasconde: il cinema a far uso della psicoanalisi, e non per niente un film di Hitchcock dà il titolo alla pagina di Lingiardi, la psicoanalisi a servirsi del cinema attraverso una quantità di studi, convegni, saggi; ma l’intreccio tra il chiaro e lo scuro continua ad affascinare gli psicocinefili (o i cinepsicoanalisti) inondando le librerie dei cinemaniaci mai sazi di nuove originali e anche pazze interpretazioni. Però Lingiardi si affaccia ai film in altro modo, un modo tutto suo, che si è inventato lui: ne ausculta il cuore, ne interroga le ombre, li accoglie con gentilezza e premura, non soltanto con le armi dello studioso; perché a suggerirgli le parole sono i suoi sentimenti, quel moto d’amore che si confronta con il rigore professionale.
Al cinema con lo psicoanalista racconta tutto delle nostre vite come le vede lo schermo visto da Lingiardi, ci svela noi stessi, svelando personaggi e storie, magari lontanissimi dal nostro vivere eppure specchio di inquietudini e desideri che ci appartengono. Ecco le mille realtà della famiglia che l’ipocrisia vuole sempre perfetto nucleo della nostra sicurezza, i famosi mamma e papà della politica bugiarda e provate voi a indovinare in che film su di lei «aleggia un clima “incestuale” (…) relazioni possedute dal non detto e private della sicurezza di confini riconosciuti»; dove l’adulterio «è una forma di ritorsione contro la condizione di sudditanza morale e psicologica in cui suocero e marito l’hanno costretta»; dove tra due ragazzi «con lenta prepotenza, e inevitabile splendore, la bellezza del primo desiderio viene alla luce, portando verità dove era l’artifizio»; dove la morte di un figlio diventa «uno scontro intimo e politico sulla cattura dell’anima, una battaglia per il controllo delle immagini, un dialogo familiare e struggente sulla impossibilità di raffigurare l’amore e impedire la separazione». E poi la vecchiaia con i suoi «archetipi senza tempo, perduti nelle parole di discorsi sempre uguali, nello sguardo quasi spento (…) alla fine rimangono la malattia e la solitudine di scegliersi la propria bara»; e ancora il sesso, «una tensione enigmatica/pragmatica, un organizzatore potente dell’esperienza psichica (…)».
Sul cinema in generale ci sono milioni di testi: dizionari di critica, biografie di registi e star, studi dei generi, saggi sul bacio nel cinema o sulle scarpe delle dive. Sono quelli detti da tavolino, davanti al divano, affinché gli amici apprezzino il rigore dell’ospite; questo di Lingiardi proprio no, lo immagino un po’ sciupato per eccesso di consultazioni sul comodino accanto al letto, per ripescarne ogni volta un ricordo, un pensiero, una persona, un’emozione. Per riscoprire un altro film in quello che abbiamo visto, per prepararci a vederne uno nuovo e a confrontarlo con quelli del passato. Per capire che ogni film ha diverse vite, secondo chi lo guarda e nei diversi momenti in cui lo si vede, e persino con chi. Penso alla passione sfrenata per L’anno scorso a Marienbad di Resnais nel 1961, che dieci anni dopo ai suoi fan parve insopportabile, o a Gruppo di famiglia in un interno, giudicato nel 1974 un film minore di Visconti e riscoperto recentemente in tutta la sua luttuosa meraviglia. Lo psicoanalista, questo psicoanalista, dà un nuovo imprevisto ritratto del cinema, che non segue alcun ordine cronologico, alfabetico, per titolo o regista; ha invece diviso la sua antologia in sei stanze letterarie, “ariostesche”, di cui è lui stesso a spiegare il senso nell’introduzione: le Donne, i Cavalier, l’Arme, gli Amori, le Cortesie, l’Audaci imprese. Classificazione apparentemente arbitraria o anche solo poetica, di cui si capisce, sfogliandola, la necessita lingiardiana. E anche il piacere del disordine e dell’improvvisazione solo apparenti, perché sono proprio il caso e la scoperta, come una premonizione inaspettata, a spalancare una porta, a illuminare un angolo buio, una traccia, una risposta nascosta.
Gli psycho di questo primo volume sono 195 e continuano a vivere settimana dopo settimana su il Venerdì; ogni volta 1850 battute (i primi 1250), una trentina di righe che sarebbero niente se proprio la loro brevità non fosse la condizione necessaria per denudare la singola storia e farcela possedere subito. La scrittura ci mette in riga, ci provoca, nella sua semplice ricchezza, nella capacità di analisi e di affetto, ogni film che diventa tante vite. Film vecchi, film recenti, film nuovissimi, film popolari, documentari e corti; soprattutto film importanti, che vengono da lontano e raccontano di ciò che non sappiamo e non vogliamo sapere. Film poveri e bellissimi, che stanno nei cinema un giorno o neanche ci arrivano, forse l’unico film che non bisognerebbe perdere e di cui talvolta non conosciamo neppure l’esistenza. Lingiardi la conosce, li cerca, non li perde. Leggere ogni psycho ti spinge a cercare di rivedere film quasi dimenticati, e non solo quelli che ognuno di noi vuole rivedere per tutta la vita.
Nella prefazione racconta il nesso tra cinema e psicoanalisi, ma non siamo né suoi studenti né suoi colleghi: quindi per noi diventa un novellatore che si impadronisce della carne, del cuore, del respiro di un racconto a immagini e ce lo offre vivo, in modo che ci sfiori, non si perda e resti con noi.