La Gazzetta dello Sport, 3 settembre 2020
Il fair play per i club di calcio esiste ancora?
Doveva mettere tutti in riga: emiri, sceicchi, miliardari russi, fondi americani. Ossia quel nuovo mondo che ha colonizzato il calcio europeo con l’idea di vincere tutto e subito. Puntando quindi alla più prestigiosa delle competizioni: quella Champions League, simbolo di un sistema che l’Uefa, dieci anni fa, decise di proteggere da sfrenate ambizioni personali, e spesso politiche, di regnanti e magnati. Sembrava una buona idea, ma il fair play finanziario voluto da Michel Platini viene ormai percepito come un regolamento malleabile a seconda degli interlocutori, con una misura per ogni peso. Lo dimostra il caso del Manchester City, scampato a luglio all’esclusione biennale dalla Champions, e che sta pianificando un’operazione da mezzo miliardo per prendersi Messi e tentare di nuovo la scalata incompiuta al tetto d’Europa. Alla faccia di club, magari più blasonati, come il Milan costretto a rinunciare pure alla meno glamour Europa League pur di impostare una ricostruzione, e guardare con più ottimismo al futuro. All’Uefa non sono sfuggite le possibili interpretazioni penalizzanti sull’applicazione di norme che furono create non per limitare singoli club, ma per evitare derive nei sistemi in cui operano. Una riflessione è in corso da almeno un anno su cambiamenti inevitabili, che la pandemia ha reso urgenti. E questo al di là della battaglia persa con lo sceicco Mansour che – secondo le inchieste emerse da Football Leaks – ha coperto quasi due miliardi di euro spesi sul mercato, in 12 anni di proprietà, con sponsor legati, direttamente o indirettamente, a sue società. Un problema condiviso con il Psg, il club dell’emiro del Qatar, grande rivale di Abu Dhabi sullo scacchiere mediorientale, che fu bocciato dall’Uefa nel 2014 imponendo, come al City, la riduzione della rosa in Champions, un tetto alla massa salariale, ma anche l’azzeramento progressivo di sponsor legati a Doha. Come quello dell’Ufficio del Turismo qatariota, da 150 milioni annui, che non aveva mai preteso grande visibilità in cambio. Per la società parigina si trattava di “nation branding”. Solo un espediente incongruo per l’Uefa. Ma già allora, una multa da 60 milioni fu ridotta a 20 milioni, su pressione del Psg che esigeva un trattamento alla pari del City. Entrambi condividevano però lo status di neo ricchi, invisi dai club storici, italiani e spagnoli in particolare, preoccupati di non poter mantenere il ritmo di investimenti dei nuovi concorrenti. Tre anni dopo, l’emiro spese infatti 402 milioni in una sola estate per comprarsi Neymar e Mbappé, grazie però a un assetto di sponsor non legati a Doha, ma altrettanto redditizi, sedotti dall’idea di associarsi alle stelle parigine. E se il club francese è scampato a nuove indagini, sfruttando indecisioni delle istanze di controllo dell’Uefa, quello inglese è finito ancora nei guai. L’Uefa a febbraio ha escluso i Citizens dalla Champions fino al 2022, anno del Mondiale in Qatar. Cinque mesi dopo però il Tas di Losanna ha dato ragione allo sceicco, multato solo di 10 milioni per mancata collaborazione alle indagini. L’Uefa si è limitata a prendere atto, anche perché ha già avviato un lavoro di aggiornamento del fair play finanziario, soprattutto per affrontare le conseguenze devastanti della pandemia che ha costretto la stessa Unione Europea a sdoganare persino gli aiuti di Stato, fino a ieri vietati. Rendendo così obsoleta pure la riflessione sull’incompatibilità del sistema di controllo Uefa con i principi di libera concorrenza e libera impresa vigenti nell’Ue, come periodicamente accusano emiri e sceicchi. Insomma, neppure a Losanna ormai si preclude in futuro un atteggiamento più clemente verso investimenti, come quello del City con Messi, che oggi appaiono in contrasto con le regole in vigore, ma che garantirebbero una circolazione salvifica di liquidità. Sebbene sempre in un’ottica di rilancio virtuoso, in un sistema calcio totalmente mutato rispetto a dieci anni fa, con nuove figure di investitori, ricavi molto più importanti e nuove possibilità di espansione. In questo senso, anche chi in questi anni, come l’Inter della cinese Suning e la Roma di proprietà statunitense, hanno dovuto barcamenarsi tra sanzioni e “settlement agreement”, potrà forse spendere con più libertà, per permettere così al calcio italiano di competere alla pari con gli altri grandi campionati europei.