Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020
L’assalto della Cina alle materie prime
Dici Cina e pensi dumping: enormi quantità di metalli a basso costo, che inondano i mercati occidentali. Ma da qualche mese non è più così. Questa pazza estate del Covid ha capovolto ogni prospettiva, anche nel mondo delle materie prime. Il colosso asiatico – divenuto bersaglio non solo delle ire di Donald Trump, ma di pesanti dazi imposti da un’infinità di Paesi – ora importa più acciaio e alluminio di quanto non ne esporti: un cambiamento di portata storica, senza dubbio frutto della situazione anomala che stiamo attraversando (e dunque probabilmente temporaneo), ma comunque degno di nota, per le ripercussioni che sta provocando e che minaccia di provocare.
L’apparente fame di metalli di Pechino da un lato sta aiutando a smaltire le scorte accumulate durante il lockdown, in qualche modo offrendo sostegno all’industria metallurgica. Ma dall’altro sta mettendo in tensione i prezzi di molte materie prime, in una fase in cui l’economia rischia di essere troppo fragile per sopportarlo.
Le quotazioni del rame, sostenute in gran parte dal boom di importazioni cinesi, sono salite al record da due anni al London Metal Exchange, spingendosi fino a 6.830 dollari per tonnellata nella seduta di ieri: un rialzo del 56% dai minimi di marzo. Il minerale di ferro, ingrediente dell’acciaio, è addirittura ai massimi da sei anni: il prezzo spot per consegna nel Nord della Cina (che fa da benchmark per tutto il mondo) ha raggiunto 128,60 dollari per tonnellata pochi giorni fa secondo Argus.
La Cina, prima vittima del coronavirus, è stata la prima a rimettersi in moto dopo l’emergenza. E in breve tempo ha ingranato la quarta. L’attività manifatturiera è in forte espansione da maggio e l’indice Pmi Caixin ad agosto è salito addirittura ai massimi da 9 anni: 53,1 punti (dopo i 52,8 di luglio) secondo il dato diffuso ieri, che evidenzia un’ulteriore accelerazione di ordini e produzione industrale, nonché la prima ripresa dell’export da inizio anno. Segno che anche fuori dai confini cinesi i consumi si stanno risvegliando.
Per diversi mesi il quadro era stato differente: la Cina correva da sola, mentre il resto del mondo scontava gli effetti del lockdown. E correva forte, grazie al doping di stimoli economici somministrati prontamente e focalizzati in modo particolare su infrastrutture ed edilizia, settori ad alto consumo di metalli.
L’acciaio sembra non bastare mai. Le importazioni cinesi a luglio hanno superato le esportazioni per il secondo mese consecutivo: un “sorpasso” di oltre un milione di tonnellate, ancora più notevole se si considera che anche la produzione siderurgica del Paese era lanciata a livelli record. Sia a giugno che a luglio la Cina ha sfornato acciaio al ritmo senza precedenti di 3 milioni di tonnellate al giorno e secondo Baosteel, primo produttore locale, l’output nel 2020 supererà per la prima volta il miliardo di tonnellate.
Nonostante questo, approfittando delle difficoltà del resto del mondo (e del conseguente crollo dei prezzi), Pechino ha rastrellato acciaio dappertutto, persino in India, da cui ha raddoppiato gli acquisti in un periodo di tensioni diplomatiche alle stelle dopo scontri sul confine himalayano.
Un copione molto simile è andato in scena sul mercato dell’alluminio, in cui – per la prima volta da oltre dieci anni – Pechino ha riguadagnato lo status di importatore netto, acquistando all’estero ben 391mila tonnellate tra metallo grezzo e prodotti, sette volte i volumi di un anno prima.
Sempre a luglio anche le importazioni cinesi di rame raffinato hanno raggiunto il record storico: 554.979 tonnellate, +90% rispetto a un anno fa: una domanda così forte da aver svuotato anche i magazzini Lme, dove le scorte sono ai minimi da dicembre 2005, in ribasso del 70% da maggio.
La quantità di metalli assorbita dalla Cina, tra produzione interna e importazioni, è talmente grande che si fatica a spiegarla solo con il vigoroso recupero post-Covid del gigante asiatico o con gli stimoli all’economia (che peraltro sono stati dispiegati in tutto il mondo). C’è dell’altro, anche se delineare un quadro preciso della situazione è difficile, come sempre quando si tratta della Cina.
I forti acquisti di metallo raffinato dipendono anche dalla difficoltà a procurarsi rottami durante la pandemia, che ha messo in crisi molti impianti di produzione cinesi. I metalli, importati a buon mercato grazie a un arbitraggio favorevole con l’Occidente, in parte potrebbero anche essere finiti nella zona d’ombra di magazzini privati, fuori dal radar delle statistiche, per essere conservati a fini speculativi: fenomeno che non sarebbe certo una novità.
Ma tra le ipotesi che circolano c’è anche quella che Pechino abbia approfittato della crisi da pandemia, che ha fatto crollare i prezzi, per accumulare scorte strategiche di materie prime attraverso lo State Reserve Bureau: qualcosa che si sospetta avesse fatto anche durante la recessione globale del 2009 (proprio in quel periodo il Paese era stato per l’ultima volta importatore netto di alluminio). Ad avvalorare la teoria, il fatto che il boom di acquisti abbia riguardato anche altre commodities chiave per l’economia cinese: il petrolio – con importazioni ai massimi storici a giugno, 13 milioni di barili al giorno, poi calate con la ripresa del prezzo del barile – e alcuni prodotti agricoli, come mais e grano, che non servono allo sviluppo delle infrastrutture, né si prestano a speculazioni.