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 2020  settembre 02 Mercoledì calendario

Intervista a Roberto Vecchioni

Quella sera del ’77, a Bologna.
La più brutta della mia vita. Concerto organizzato da Lotta Continua dopo l’assassinio di un ragazzo del Movimento, Francesco Lorusso.
E lei, Roberto Vecchioni, attaccò Samarcanda.
Cantai “oh oh cavallo” e scoppiò il caos. La canzone, ispirata da un romanzo di O’Hara, parlava di un soldato inseguito dalla Morte. Lì pensarono a una filastrocca commerciale. Tutto doveva essere politica. Presero a lanciarmi di tutto. Il manager Fantini mi tirò via. Scappammo in auto. L’ideologia era un muro: si pretendeva la musica gratis, il 6 politico.
È per quel trauma che ora non scriverebbe più Samarcanda?
È perché non credo più che l’uomo sia vittima del Destino, ma il contrario.
I cantautori venivano contestati ferocemente. Lei, De Gregori, Finardi…
Non Guccini, che di brani politici ne aveva scritto solo uno.
Due anni fa lei convinse il Maestrone a cantare di nuovo: Ti insegnerò a volare, dedicata a Zanardi.
Quando, dopo, Alex ha avuto l’incidente ho provato dolore, ma anche conforto. Adesso ha triplicato le forze, il suo pensiero si è fatto decisivo. Se le serie tv ti raccontano solo di intrighi, cupidigia e delitti, voglio stare dalla parte luminosa di Zanardi, che con le sue rotelle è il più veloce di tutti.
E con Guccini ha insistito per altre cantate?
No, ma ci frequentiamo. È nella cinquina del Campiello. Francesco è pieno di acciacchi e malinconie. Però è sempre stato un crepuscolare cacadubbi, novecentesco come me. Impressiona che il gigante si sia ritirato nella casupola di famiglia in un paesino mai illuminato dal sole. Ha voluto togliersi dai coglioni. Con un mazzo di carte.
Come quando giocavate all’Osteria Da Vito.
Guccini non amava perdere. Costretti a far notte finché non aveva il punto.
Dalla vi ronzava intorno.
Lucio mi stimava: ‘Tu farai il botto! Non capisco un cazzo delle tue canzoni, ma sono belle’.
I Settanta, evo aureo della canzone d’autore.
Sei grandi in un decennio: poi devi nascere con dei coglioni così per reggere il confronto. Oggi c’è il rap, che però ha tematiche limitate, gli insulti al mondo, la rabbia… La canzone d’autore troverà nuove forme, ma non morirà mai. È lo specchio delle nostre verità più profonde, non ha nulla a che fare con il diktat dei tormentoni, di Spotify o delle radio.
Sabato (domani su Rai2) è comparso allo Sferisterio di Macerata, al gran finale di Musicultura, per omaggiarne il patron scomparso, Piero Cesanelli. Ha anche interpretato un brano di Piero, Sopra Milano.
Cesanelli aveva un’idea pura della canzone d’autore. Ne amavo l’ingenuità.
Ha un nuovo disco nel cassetto?
Ho pezzi recenti, e altri scritti a vent’anni, ispirati dai miti greci. Canterò finché avrò voce. Intanto a ottobre, per Einaudi, uscirà un mio nuovo libro, Lezioni di volo e di atterraggio. Ricordi degli anni 80, quando insegnavo a tempo pieno. In 14 lezioni mi confronto socraticamente con gli allievi, esortandoli a riscrivere le vite degli eroi, da Ulisse a De André.
Da Prof. che dialogava passeggiando con gli studenti, che effetto le fa il presente della scuola?
Questa è una generazione sfortunata. Non si impara assimilando istruzioni, ma vivendo gomito a gomito il piacere della scoperta. Il mondo è comunità, non alterità. Però quel che accade non è colpa di nessuno.
Alda Merini le telefonava alle tre di notte.
Mi declamava liriche, o suonava Luci a San Siro al piano. Nel libro pubblicherò una sua poesia inedita. E quando morì mia madre eravamo alla festa dell’Unità: sul palco la Merini inventò versi per mamma.
Sua madre le dava una paghetta-capestro.
Ma papà rinforzava le mille lire e andavo pure allo stadio. Scrissi un orribile inno dell’Inter: lo cantava Bertini, gran mediano stonatissimo.
Che direbbe oggi suo padre?
Da qualche varco spaziotemporale comunica ancora con me. Certe canzoni mi arrivano dall’aldilà. Chiamami ancora amore, con cui vinsi Sanremo, la buttai giù in mezz’ora: non poteva essere farina del mio sacco. Papà era uomo di poche virtù e molti vizi, ma aveva fiducia in me: a 18 anni mi lasciava cantare nei cabaret. Io come padre sono poca cosa, anche se i miei figli mi assolvono.
Che ricorda dell’ingiusto arresto del ’79, accusato di aver passato uno spinello a un adolescente?
Ero un morto che camminava. In cella mi chiedevo il perché di quell’immeritato castigo, dal dolore non sentivo più le braccia, la testa, il cuore. Con un groppo in gola che non riusciva a sciogliersi in pianto.