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 2020  settembre 02 Mercoledì calendario

Come nacque “La dolce vita”

La verità su La dolce vita era nascosta in quattro scatoloni pieni di muffa e ragnatele. Migliaia di fogli, telegrammi, contratti, note, bozze, ricevute, ingiunzioni, cambiali. Soprattutto un carteggio a tre colori: l’inchiostro rosso usato da Federico Fellini, la firma in verde di Angelo Rizzoli e il sobrio carattere scuro di Giuseppe Amato, produttore caduto nell’ombra del capolavoro di sessant’anni fa. A scoprire il tesoro di memorie è stato il nipote materno Giuseppe Pedersoli (figlio di Carlo, in arte Bud Spencer, la madre è Maria Amato, figlia di Giuseppe), facendone la base per il docufilm La verità su La dolce vita, fuori concorso alla Mostra di Venezia il 10 settembre e poi in sala. «Mi sono sempre chiesto perché nonno, dopo aver prodotto La dolce vita, non ne avesse cavalcato il successo e a 64 anni, poco tempo dopo le vicissitudini del film, fosse venuto a mancare», non prima di aver depositato un soggetto dal titolo La verità su La dolce vita, «forse la sua versione sul capolavoro». Studiando quei documenti, rimettendoli a posto cronologicamente, racconta Pedersoli, «ne è scaturita una sceneggiatura naturale basata sul carteggio a tre intercorso tra l’estate del 1958 fino al 1960, con l’uscita del film: Fellini che era autore del progetto, Amato che lo aveva apprezzato quando tutti gli altri produttori lo avevano rifiutato e Angelo Rizzoli, socio storico di Amato».
La storia parte con il viaggio di Amato a San Giovanni Rotondo per avere la benedizione da Padre Pio, prima di dipanarsi lungo l’infernale avventura produttiva. Alcuni personaggi, tra cui Amato, sono interpretati da attori, ad altri le voci sono prestate da doppiatori. E poi i video di uno strepitoso duetto Vittorio De Sica – Amato, le testimonianze di Marcello Mastroianni, Sandra Milo e Dino De Laurentiis. Per Pedersoli si tratta anche di restituire verità alla figura del nonno, che «all’epoca molti descrivevano come un guappo napoletano ignorante, basti pensare al ritratto che ne fa Carlo Lizzani in Celluloide, che ha offeso mia madre e le sue sorelle». Attore famoso del cinema muto, conquistatore di dive hollywoodiane, produttore e distributore – ha fatto arrivare lui in Italia i disneyani Cenerentola e Bambi, ha portato sullo schermo il teatro dei fratelli De Filippo, ha tenuto a battesimo il debutto alla regia Vittorio De Sica, l’unica volta che Amato ha rivelato scarso fiuto è stato in famiglia: «Nonno si lamentava perché i colleghi avevano le grandi stelle in casa – Loren e Mangano – e lui doveva pagarle. Non sapeva che suo genero, mio padre Carlo Pedersoli, pochi anni dopo sarebbe diventato un attore popolare. Mio padre ha anche lavorato per nonno nella produzione e nella gestione degli studi cinematografici dal ’59 al ’62. Mio padre descriveva nonno come un uomo elegante, che non si fermava davanti a nessun ostacolo e così è stato per La dolce vita». Eppure quel film, sofferto e complicato al di là degli aspetti economici (costò il doppio del preventivato), finì per compromettergli la salute: «Continuò a lottare malgrado un primo infarto lo avesse colto durante i primi mesi della post produzione. Una sua collaboratrice dichiarò: “Peppino Amato è morto a causa della Dolce vita”. Ad amareggiarlo più che gli scontri con Fellini, «entrambi personalità fortissime, ma sapevano di lottare entrambi per il bene del film», fu quello che considerò un tradimento dell’amico e socio Rizzoli, «che prospettando il fallimento del film gli chiese indietro i soldi e lo mise in ginocchio. Nonno è stato dimenticato, è bello oggi poter restituire la sua impresa a chi non lo ricorda o non lo conosce».