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 2020  settembre 02 Mercoledì calendario

Il giallo dell’eroe di Hotel Rwanda

Di fronte a Paul Rusesabagina si prova un qualche freddo interiore, socchiude le porte dell’abisso che è in noi. Chi è? Un eroe o un losco profittatore di genocidio? Terrorista o vittima di una dittatura che non dimentica nulla e custodisce la vendetta come un bene prezioso? Vive a mezzaria come i personaggi di Chagall. La geologia della sua anima ci lascia solo incerti resti fossili.
La figlia Anisa ne ha denunciato la sparizione e il sequestro a Dubai da parte di una squadra dei Servizi ruandesi; il governo di Kigali ha confermato l’arresto per un barile di abiezioni, in particolare di essere il regista di attacchi terroristici nel 2008 dal vicino Burundi. Rusesabagina è infatti un fiero oppositore del regime tutsi e ha anche fondato un partito politico. Il genocidio ruandese, i cento giorni di follia sanguinaria, ci appare ancor più fondo e scuro, più insopportabile.
Il bilancio era di 800mila morti, nella chiesa di Nyamata si camminava calpestando ossa dei trucidati che scricchiolavano sotto i piedi come gusci d’uovo. Dio era fuggito inorridito dal Ruanda ed era rimasto solo la realtà terrificante del crimine umano.
Ma a Kigali un albergo era rimasto aperto, si chiamava «Hotel delle mille colline» e lì un uomo si era issato al di sopra di questo oceano di ferocia. Un uomo comune, non un rambo o un martire, semplicemente un impiegato cui la Sabena, proprietaria dell’hotel, aveva affidato la gestione. Un uomo che aveva aperto le braccia mentre il mondo chiudeva gli occhi e con umile arsenale di furberie, bugie, santa corruzione, coraggio impavido aveva salvato 1200 rifugiati tutsi, donne vecchi bambini, dal massacro. Uno di quegli uomini così grandi che rimpiccioliscono il mondo attorno a sé.
Una goccia nel mare dell’orrore certo, ma questo Oskar Schindler africano, abbiamo pensato per anni, riscattava gli idealisti, gli amici del genere umano. La vita aveva perso contro la morte in quei giorni, ma la memoria, grazie a quell’uomo giusto, vinceva nella sua lotta contro il nulla.
Paul Rusesabagina faceva il tassista a Bruxelles quando Hollywood l’ha scoperto e trasformato, sembrava quasi suo malgrado, in eroe universale. «Hotel Rwanda», «un film che racconta una storia vera» interpretato magistralmente da Don Cheadle, ha fatto versare lacrime a tutto il mondo, il suo successo ha innalzato a coscienza universale la deprecazione della macelleria di Kigali. E ha aiutato la catarsi dell’Occidente, che ha così cessato di battersi il petto per non aver visto e sentito in tempo.
Giornalisti di tutto il mondo vennero a intervistarlo nella sua modesta casetta. Fu ricevuto due volte da Bush che gli consegnò la «Presidential Medal of Freedom», ha tenuto conferenze e scritto l’autobiografia «An ordinary man», classificata frettolosamente tra i classici della letteratura umanista.
Poi nel 2008 qualcosa si inceppò. Due uomini davano la caccia all’eroe del genocidio: Alfred Ndahiro, giornalista, consigliere di comunicazione del discusso presidente ruandese Paul Kagame e Privat Rutazibwa, un universitario. Insieme, con puntiglio implacabile, quasi feroce, che a molti parve sospetto, demolirono la leggenda dell’uomo che aveva creato un luogo in cui la speranza potesse sopravvivere. Leggemmo un ritratto capovolto, un arrivista meschino che si faceva pagare dollaro su dollaro la pietà, che trafficava con i responsabili del massacro, che ha ascritto cinicamente a suo merito circostanze cui soltanto si deve la salvezza di quei 1200 tutsi. Il suo eroismo sarebbe stato subdolamente retrospettivo, una icona falsa costruita con l’aiuto del cinema americano. Restammo, allora nudi di fronte al versante atroce dell’umanità.
La controstoria dei due ruandesi deve esser letta con cautela; in Ruanda il diritto all’oblio non sembra esistere. Che il rapimento a Dubai e l’accusa di «terrorismo» rende ancor più necessaria. Restano comunque, implacabili, i fatti e le testimonianze. Perché i due autori interrogarono i superstiti e coloro che lavoravano nell’albergo. Ciò che gli sceneggiatori di «Hotel Rwanda» non hanno fatto. Ebbene, nulla corrisponde alla «verità» descritta dal film. Un esempio che striminzisce l’eroe. Micheline Uwicyeza, 19 anni allora, cercava aiuto con i suoi fratelli: «Abbiamo incontrato Rusesabagina alla reception, ci ha chiesto 80 dollari a persona, come agli altri che si trovavano già lì. Ha aggiunto che se non avevamo da pagare non ci avrebbe lasciati entrare perché aveva già abbastanza «inyenzi», scarafaggi (lo spregiativo che gli hutu usavano per designare i tutsi) come noi. Quando è salito nella sua suite uno dei dipendenti dell’albergo, si è impietosito e ci ha fatto scendere di nascosto in cantina...».
Perché allora i rifugiati dell’hotel si sono salvati? Nell’albergo si trovavano funzionari dell’Onu e stranieri, che i registi del massacro temevano come scomodi testimoni. E poi l’«Hotel delle mille colline» fu esibito nelle trattative come la prova che i tutsi non erano stati massacrati. A render tutto più opaco si aggiunse la rivelazione che al quinto piano era nascosta una unità segreta di comunicazioni dell’esercito francese, il principale alleato del governo hutu.