La Stampa, 1 settembre 2020
Etruschi, il bello del melting pot
Una delle tombe etrusche più misteriose si trova nella necropoli di una città greca, Cuma, la splendida colonia fondata in terra campana dagli Elleni arrivati dall’Eubea. Non è esattamente una tomba etrusca, però. Al suo interno sono stati trovati oggetti legati al rituale del simposio, un calderone d’argento che racchiude le ceneri del defunto (secondo la consuetudine degli eroi omerici), armi etrusche contorte e rovinate dal fuoco, ricchissimi ornamenti, un’anfora dal collo dipinto. Non è neppure la classica tomba di uno degli Hippobótai euboici, gli aristocratici che dominavano la città. Per la celebre tomba 104, scoperta nel 1902 nel fondo Artiaco e risalente alla seconda metà dell’VIII secolo a.C., gli archeologi hanno spesso parlato di un sepolcro «misto». Appare come il condensato di un crogiolo di culture che già allora caratterizzava il Mediterraneo, un melting pot di migrazioni e invasioni, emulazione culturali e competizioni commerciali.
Questa era infatti l’ultima dimora di un personaggio di alto lignaggio. Un guerriero di origine etrusca in una fiera polis? Un principe mezzosangue? Non sono azzardi fantastorici. È sufficiente ricordare il percorso inverso di Demarato: da Corinto, su cui la sua famiglia, i Bacchiadi, avevano regnato, a Tarquinia, dove fece da apripista a una migrazione di artisti greci, ceramisti soprattutto, riempiti di commissioni dalla società affluente locale smaniosa di status. Sposò una nobildonna che gli diede due figli, educati alla maniera greca e etrusca. Il secondo, Lucumone, divenne famoso come Tarquinio Prisco, il quinto re di Roma.
Mangiava e beveva come un greco, portava armi e abiti etruschi e si comportava come un re orientale: l’uomo enigmatico della tomba 104 era un seguace della moda orientalizzante, che mescolava tradizioni greche, italiche e orientali, magari in vita aveva sfoggiato l’affibbiaglio di oro e argento, tipico gioiello etrusco portato sulla veste all’altezza della spalla, decorato con sfingi, ritrovato vicino ai suoi resti e che ora si può ammirare nella mostra «Gli Etruschi e il Mann» a cura di Paolo Giulierini e Valentino Nizzo (catalogo Electa, fino al 21 maggio 2021 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Che mette a fuoco proprio la rete di relazioni – specie nella prima parte – nella Campania abitata da Greci, Etruschi e Oschi. Il direttore del museo napoletano e quello di Villa Giulia a Roma hanno riunito 600 reperti che concentrano seicento anni di storia, dal X al IV secolo, tra meticciato culturale e invenzioni artistiche, rotte contese e battaglie sanguinose. Dalla cultura villanoviana da cui gli Etruschi si formarono, fino a creare un ethnos coeso, all’ammirazione per la cultura ellenica e alle guerre con i Sanniti.
Dalla necropoli di Suessula, una delle città della dodecapoli etrusca in Campania, viene un capolavoro mai esposto, un pendaglio pettorale di bronzo laminato, i pendenti a forma di uccello che terminano nel motivo della barca solare, caratteristico dell’Etruria meridionale. Le città campane, da Nocera a Pompei (alle cui origini etrusche è stata dedicata una precedente mostra al Mann) sembrano direttamente legate alla dodecapoli dell’Italia centrale, centro della potenza dei Rasna, come gli Etruschi chiamavano sé stessi. In Campania le colonie etrusche avevano preceduto quelle greche, la più importante divenne Capua, la grande rivale di Cuma, famosa secoli più tardi per gli ozi di Annibale e per la scuola gladiatoria da cui partì la rivolta di Spartaco.
Se Capua era rivale di Cuma, d’altra parte intratteneva rapporti con i Greci di Sibari (ai bon vivant etruschi le raffinatezze dei sibariti dovevano apparire congeniali e gli interessi commerciali coincidenti); nell’emporio di Pitechusa, sull’isola di Ischia, le botteghe e i magazzini greci, etruschi e punici convivevano senza frizioni. Se importavano dalle città greche ceramiche e artisti – basta pensare all’Olpe Chigi, al pittore delle rondini e ad Aristonothos, autore dell’omonimo cratere -, a loro volta gli Etruschi esportavano gioielli di fattura superba e i buccheri, un tipo di ceramica nera lucida e in genere leggerissima. Un bell’esempio in mostra è la brocca proveniente dalla bottega della Gorgone di Chiusi, mentre abbaglia la coppa «fenicia» di argento dorato ritrovata nella tomba Bernardini a Palestrina, con quei richiami orientali adorati dall’aristocrazia delle dodecapoli, almeno fino al VI secolo.
Fu un amore difficile, quello tra Etruschi e Greci, segnato da esaltazioni e tradimenti, diffidenze e vendette. Per gli Elleni, che li chiamavano Tirreni, erano pirati temibili: «E presto, sulla solida nave apparvero veloci, sul cupo mare, pirati Tirreni. Li portava la sorte funesta» si legge nell’inno omerico a Dioniso. Di certo le navi etrusche e greche si scontrarono in diverse battaglie, prima nel mare sardo e poi davanti a Cuma, con la vittoria finale delle triremi cumane e siracusane alleate, nel 474 a.C., sui vascelli etruschi più adatti forse agli agguati corsari.
La scintilla, storicamente, iniziò proprio in Campania, a Cuma: secondo Hermann Bengtson fu la colonia della Magna Grecia a far conoscere agli italici l’alfabeto calcidese e le divinità olimpiche, al cui culto i Rasna dedicarono templi, statue e adattarono pratiche divinatorie. Ma forse i rapporti sono più antichi e profondi. Il nome di Capua viene da un eroe troiano. A Lemnos, davanti a Troia, l’iscrizione su una stele funeraria sembra appartenere alla stessa famiglia dell’idioma etrusco. Che il linguista Giulio Facchetti ha messo in relazione pure con la scrittura lineare A minoica. Nel Mediterraneo meticcio e folto di miti, da quello della Sibilla cumana alla sirena Parthenope inumata a Neapolis, alcuni nodi dell’amore rivale tra Etruschi e Greci sono ancora da sciogliere.