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 2020  settembre 01 Martedì calendario

Jacopo, il quarto Gassmann

«Il mio debutto alla Biennale Teatro Venezia è il compimento di una felice triangolazione: il direttore del festival, Antonio Latella, tanti anni fa era sulla nave di Moby Dick con mio padre». Jacopo Gassmann, il più piccolo dei quattro figli del grande Vittorio, approda per la prima volta alla rassegna teatrale veneziana: il 23 settembre al Piccolo Arsenale firma la regia dello spettacolo Niente di me dello scrittore norvegese Arne Lygre. Protagonisti in scena Sara Bertelà, Michele Di Mauro, Giuseppe Sartori.
«Avevo 12 anni quando vidi per la prima volta a Genova quell’immensa messinscena di Ulisse e la balena bianca. Quella nave concepita da papà era piena di talenti e lui era un capitano Achab sconvolgente».
Piena di talenti è la famiglia Gassman: lei è fratello di attori, figlio di un attore e di un’attrice, Diletta D’Andrea. Ha scelto di fare il regista per prendere le distanze?
«No. A 18 anni andai alla New York University ed ero deciso a fare l’attore, frequentai lo stesso corso frequentato da Marlon Brando. Mi resi conto però che mi interessava maggiormente il lavoro di chi sta dietro le quinte, non l’esibizione in palcoscenico. Ero a un bivio: faccio l’attore o il regista? E decisi per la regia».
Il 26 giugno ha compiuto 40 anni e sono 20 anni dalla morte di suo padre, il 29 giugno 2000.
«Al suo funerale mi capitò un fatto strano. Al contrario di papà che perse il padre a 14 anni e alla cerimonia funebre si sentì investito del ruolo di orfano, come se interpretasse un ruolo da attore, io ebbi una reazione opposta. Tale era il dolore, che ero ammutolito, volevo scomparire, nascondermi dietro le quinte: i funerali sono un po’ delle messinscene. Poi gli ho dedicato i miei primi due documentari, per raccontare la sua leggenda di uomo pubblico e privato. Un modo per elaborare il mio lutto».
Ultimogenito di una dinastia, con un padre in là con l’età, si è sentito più amato?
«Ho vissuto il suo aspetto senile, più saggio, più dolce: quasi quello di un nonno nei confronti di un nipote. Da giovane era tosto, duro, con me più accondiscendente. Purtroppo, ho vissuto anche la sua vecchiaia e la depressione, dove alternava momenti di esaltazione, quando saliva in palcoscenico, a quelli in cui si chiudeva in casa: era silenzioso e si dedicava alla lettura, alla scrittura».
Gli insegnamenti più importanti ricevuti da Vittorio?
«I suoi solidi valori etici: era leale con gli amici e generoso. Una generosità mai esibita: ogni tanto andava nelle carceri per leggere Dante ai detenuti, ma non lo diceva a nessuno, lo faceva e basta. Poi ho imparato il valore della fatica: bisogna sudarsele le cose, e in questo era tedesco».
Un suo rimprovero che non dimentica?
«Da ragazzino tendevo al perfezionismo, che può diventare un’ossessione. Una volta, vedendomi molto preoccupato per i voti scolastici, mi lasciò sul letto una lettera, in cui scriveva: amore mio, se prendi un 8, sono felice; se prendi 6, brindo ugualmente; se prendi 4, sono ancora più felice. Mi aiutò ad allentare le maglie del mio rigore».
Difficile portare il cognome di una progenie stellata o se ne sente favorito?
«All’inizio sei facilitato, poi generi aspettative e ti senti sotto perenne osservazione».
Però lei ha scelto principalmente di fare teatro.
«È il mio habitat naturale, mi sento in famiglia».
E di una strana famiglia, parla il dramma con cui approda alla Biennale.
«È la storia d’amore di una coppia in crisi. Una donna, chiamata Io, e un uomo più giovane di lei, chiamato Lui. I due amanti desiderano avere un futuro, ma lo temono, perché tra loro si aprono spiragli di un passato traumatico. Sopraggiunge una terza figura, chiamata Una persona: un personaggio brechtiano, catartico, che potrebbe rappresentare la soluzione dei loro problemi. Ma emergono gli spettri di ciò che è accaduto e la vicenda si trasforma nella via Crucis di una seduta psicoanalitica».
Le piacerebbe dirigere i suoi fratelli Paola e Alessandro in uno spettacolo familiare?
«Perché no? Se n’è parlato e sarebbe bello riunire le nostre esperienze».