Corriere della Sera, 1 settembre 2020
Le sommosse di Lucca nel Cinquecento
Maggio 1531 – aprile 1532. È una «storia da raccontare al presente» quella che trascina la piccola Repubblica di Lucca sull’orlo dell’abisso per undici mesi, scrive Renzo Sabbatini in La sollevazione degli Straccioni. Politica, economia e morale nel ’500 che sta per essere pubblicato da Salerno. Perché è una storia da raccontare al presente? Per il fatto che, spiega Sabbatini in modo assai efficace, nelle settimane dei tumulti – provocati da tessitori di seta, detti «testori», in rivolta contro nuove leggi che ponevano vincoli alle loro attività – i confini tra «rivoluzione» e «conservazione» si fanno via via più labili.
E alla fine i «nobili» egemonizzati dalla famiglia Buonvisi – pur usciti vincitori dal conflitto – verranno inchiodati dall’orazione di un religioso alla colpa di non aver capito quale fosse la vera posta di quella contesa. Una partita politicamente complessa. Un gioco in cui gli aristocratici, dopo esser riusciti a portare dalla propria parte il popolo angosciato per gli eccessi dei ribelli, non erano riusciti ad intendere le opportunità che si offrivano loro a seguito della vittoria. Non furono capaci di prendere al volo l’occasione di dialogare con il popolo (in una parte non trascurabile schieratosi contro i «sediziosi»). E di accantonare lo spirito di vendetta per costruire un mondo nuovo da loro egemonizzato.
La storia della rivolta ha inizio nel gennaio del 1531, quando la Corte dei Mercanti e il Consiglio generale di Lucca varano nuove leggi che gravano sulle attività dei lavoratori della seta. Il 1° maggio i testori insorgono partendo dalla chiesa di San Francesco e agitando come insegna un drappo nero strappato (di qui vengono detti «Straccioni», termine, secondo Sabbatini, «carico di disprezzo sociale e morale» che però – va detto – non compare mai nella cronaca della sollevazione fatta da Giuseppe Civitali nelle Historie di Lucca). Protestano anche per il pane «caro e tristo», scarso e «cattivo», e per dimostrare quanto sia immangiabile costringono il nobile Lodovico Buonvisi (recalcitrante) ad assaggiarne un pezzo. Un atto ostile che dà il via ai tumulti.
Il giorno successivo, 2 maggio, i membri del Consiglio generale – definiti nelle cronache d’epoca «quelli del cerchiolino» – fanno marcia indietro, cancellano le leggi, perdonano gli insorti e mettono in cantiere l’«allargamento» dell’istituzione parlamentare con l’aggiunta (ai novanta in carica) di trenta componenti graditi ai «popolari». Ma la sollevazione non si ferma. In luglio Lucca è sconvolta da una nuova rivolta. In questa occasione si verificano alcuni strani omicidi «in luoghi appartati della città»; uccisioni riconducibili forse a inimicizie personali, senza che però si riesca ad individuarne i colpevoli. Ancora una volta, in ogni caso, i «delitti» vengono perdonati, il Consiglio generale torna a muoversi sulla via dell’autoriforma e l’istituzione di una «Guardia dei cento fanti», atta a garantire l’ordine, viene revocata per l’opposizione popolare. In città vengono vietate le armi, ma in novembre alla festa di San Frediano si hanno nuove sommosse e compaiono le ronde dei rivoltosi che fanno irruzione nei palazzi dei nobili seminando il panico. I «principali» della città, temendo che il governo sia ormai succube degli Straccioni, attraverso Andrea Doria chiedono a Carlo V (sotto il cui ombrello hanno cercato riparo, a dispetto del fatto che i loro mercati sono prevalentemente francesi) di inviare l’esercito a sedare la rivolta in maniera definitiva. L’imperatore si sottrae. La situazione sembra acquietarsi ugualmente, ma ai primi di aprile del 1532 nuovi tafferugli e violenze, che si concludono con un assalto al palazzo del più importante tra i nobili, Martino Buonvisi. Gli aristocratici fanno il gesto di uscire dalla città ma poi, guidati dallo stesso Martino Buonvisi, tornano aiutati da milizie contadine grazie alle quali sconfiggono i rivoltosi.
Stavolta i vincitori rinunciano al perdono e inaugurano piuttosto una stagione di severità, condanne, decapitazioni. Anche contro quella parte di «popolo» che aveva dato un evidente contributo a schiacciare la sollevazione. È la fase, quella della Pasqua del 1532, in cui, scrive Sabbatini, i «sediziosi» hanno perso la rappresentanza popolare e «la violenza prende la forma di guerra civile, alla quale rispondono vittoriose le schiere di cittadini (comprese ampie fette del popolo) e contadini organizzate dai nobili, Buonvisi in testa». Dopodiché a Sabbatini appare significativo che «una volta represso il tumulto e fatta severa giustizia dei capi irriducibili», l’impegno diplomatico della Repubblica sia tutto «per fornire la propria interpretazione dei fatti a Firenze, a Roma ma soprattutto, all’imperatore che da lì a pochi anni, nel 1536, visiterà con soddisfazione la città». Appare ed è significativo perché dimostra come da allora in poi l’interpretazione dell’accaduto abbia avuto un’importanza tutta politica.
L’autore nota come la sollevazione fosse tutt’altro che un moto scomposto, rabbioso. Anzi, secondo lui, fu permeata da una logica – potremmo definirla di «economia morale» – che spingeva i popolani a chiedere il perdono dopo ogni violenza, perdono che equivaleva al riconoscimento dall’alto della legittimità della loro ribellione. Sabbatini illustra anche come gli artefici della sollevazione mettessero in campo una sottile «strategia del carciofo»: «foglia dopo foglia», le loro richieste andavano via via sempre più «al cuore delle istituzioni repubblicane».
Un saggio di Giampiero Carocci, pubblicato nel 1951 sulla «Rivista storica italiana», individuò con chiarezza vincitori e vinti di quella contesa. Vincono «nobili e mercanti», sono sconfitti artigiani e popolari, mentre «qualche duraturo successo incassano le famiglie della nobiltà minore e gli esponenti delle professioni liberali che hanno ottenuto una maggiore rappresentanza politica». È interessante il fatto che in nessuna delle cronache cinquecentesche si parli di «rivolta». Né allora, né poi. Nel 1682 compare la parola «revolutione». Il saggio di Carocci, di impronta marxista, torna al termine «rivolta» mettendo in evidenza «l’assenza di un carattere decisamente proletario del movimento». Ma Carocci individua anche i caratteri per così dire moderni di quella sollevazione.
Veniamo al punto decisivo della vicenda. È il giorno successivo a quello della vittoria dei Buonvisi. Il momento nel quale, nota Sabbatini, esce allo scoperto una «retorica popolare» che contrappone i «nobili antichi» (ricordati come «premurosi dei poveri») a quelli attuali «avari, cioè avidi di profitti e noncuranti delle classi inferiori». Si scorge quasi «il formarsi in città di un embrione di opinione pubblica assente prima e di nuovo assente nei secoli successivi del reggimento aristocratico».
Questa notazione ci aiuta a capire il senso dell’invettiva di Giovanni Guidiccioni, uomo di Chiesa, contro le classi dirigenti lucchesi. Orazione, quella di Guidiccioni, che andrebbe letta «in maniera meno semplicistica di quanto sia stato in genere fatto». Fa eccezione alla lettura «semplicistica» quel che scrisse tra il 1944 e il 1945 – proprio su Guidiccioni – Carlo Dionisotti nell’introduzione all’Orazione ai nobili di Lucca (ripubblicata in tempi recenti da Adelphi). Guidiccioni apparteneva ad una delle trentacinque famiglie che all’inizio del Cinquecento erano tra le più ricche di Lucca e fu un osservatore politico apprezzato da Papa Paolo III (Alessandro Farnese). Il quale Papa Farnese di lì a breve lo avrebbe nominato dapprima vescovo di Fossombrone, poi nunzio apostolico alla corte di Carlo V.
Qualche tempo prima, Guidiccioni – nonostante non fosse stato presente in città all’epoca dei fatti – si era messo in luce scrivendo l’invettiva di cui si è detto contro gli aristocratici di Lucca. Un’orazione che pure, con ogni probabilità, non fu pronunciata in Consiglio e che fu pubblicata postuma nel 1557. Fu quell’Orazione di Guidiccioni una sorta di manifesto politico scritto a ridosso della sollevazione degli Straccioni per esprimere un giudizio compiuto su come gli ottimati di Lucca avevano malamente profittato della loro vittoria. Il bersaglio polemico dell’Orazione, scrive Sabbatini, è «il clima aggressivo imposto dai nobili vincitori contro gli strati popolari» (che Guidiccioni difende, tenendoli ben distinti dai «pochi rei»).
Gravi sono le colpe, secondo Guidiccioni, degli aristocratici di Lucca: «Vedevansi qui alcuni nobili aver in dispregio gli inferiori, come non fussero nati del ventre di questa madre commune, e con ingiusto arbitrio dominarli e venire a tanto d’insolenzia che volevano ancora godersi, anzi usurparsi, il patrimonio pubblico con mille sconci interessi e mille aperte rubberie»; quegli stessi aristocratici «volevano con nequitose leggi proibire i guadagni leciti e quelli che essi medesimi cercano e fanno, e si ingegnavono di dirizzare un monopolio e diventare non meno abbondanti di ricchezze che di superbia e di potenzia»; azioni, quelle compiute dagli aristocratici, «tutte pessime e contrarie all’unione del viver civile».
Attenzione, ammoniva Guidiccioni, che solo il buon governo assicura la pace sociale dal momento che il bisogno «crea in sé la malizia, la malizia poi genera l’audacia e l’audacia produce la fraude e la violenza». Marino Berengo, in Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento (Einaudi), notò come proprio l’uso del termine «nobile» in alternativa a quello di «cittadino» configurasse «uno strappo» rispetto all’ «autorappresentazione» della classe governativa di Lucca. Come se il religioso accusasse le classi dirigenti lucchesi di essere arcaiche, culturalmente impreparate ad affacciarsi sulla modernità cinquecentesca. Un’analisi molto in anticipo sui tempi. Tanto più che, come ha osservato Dionisotti, la novità dell’Orazione sta anche nell’interpretazione della folla, «non più come concetto limite d’una politica d’individui privilegiati, ma come una realtà mobile e viva che è il corpo stesso della società civile».
Guidiccioni deride i nobili che si atteggiano a salvatori della patria. Li accusa anzi di non aver saputo tirar fuori una benché minima dose di coraggio al momento «delle perturbazioni della repubblica» e di essere perciò ridicoli adesso che si vogliono mostrare «valorosi» con il «perseguitar molti di quelli, gli quali presero l’armi per difender le parti de’ poveri». Adesso, li accusa, la logica che vi guida è «più la crudeltà che la mansuetudine, più l’odio che il zelo della patria, più l’impeto della vendetta che la ragione». Altrimenti, li ammonisce, avreste saputo individuare ciò che è evidente a chiunque. E cioè che all’interno del movimento degli Straccioni sarebbe giusto operare una distinzione tra i «pochi sediziosi» (che «tentarono con perversi intendimenti di spegnere il nome di questa repubblica» e che per questo meritarono «conveniente pena o con morte o con bando») e l’altra parte, maggioritaria, del popolo che meriterebbe, invece, clemenza e giustizia. Una parte di popolo, quest’ultima, che nei mesi della sollevazione avrebbe potuto «con le rubberie, con le ingiurie e con li ammazzamenti spogliare, offendere e levar di terra dal numero de’ vivi la nobiltà». E invece si è ben guardata dal farlo. Grave errore, denuncia Guidiccioni, che adesso gli aristocratici lucchesi trascurino questa importante differenza tra quei «pochi sediziosi» e tutti gli altri che invece sono immediatamente rientrati nei ranghi e hanno ben meritato.
È vero che nel moto degli Straccioni, scrive Dionisotti nell’introduzione al testo di Guidiccioni, «si riflettono distintamente i motivi di una più ampia crisi politica e sociale e che per esso si intravede una zona ancora ombrosa della vita italiana di quel periodo… Mentre oggi avvince la singolarità dell’episodio, per quella stessa travagliosa e soffocante alternanza di forze rivoluzionarie e reazionarie contrapposte nel chiuso di una città ma in un gioco a distanza che abbraccia spazio e tempo». Resta impresso il Guidiccioni che così ammonisce i nobili: «Rivocate gli animi vostri in questa oscura notte della repubblica alla luce e alla providenzia… Tenete caste le mani dal sangue civile… (state lontani) da colui il quale prende dilettazione delle discordie e delle uccisioni». In controluce si intravede il mondo della Lucchesia esposto al contagio di Martin Lutero. Ancora un decennio e i fatti si sarebbero incaricati di dimostrare la fondatezza delle apprensioni di Guidiccioni.