Corriere della Sera, 1 settembre 2020
Chi sono i patrioti armati pro-Trump
Il simbolo dei Patriot Prayer è un leone con la corona di spine sanguinante. Come Cristo sulla Croce, anche l’America bianca e conservatrice soffre, martirizzata dai liberal, dal secolarismo, dalla tirannia. Il loro leader è un trentaseienne di origini irlandese e giapponese. Si chiama Joseph Ovan Gibson, è nato a Camas, nello Stato di Washington, costa occidentale degli Stati Uniti. Ha studiato alla Central Washington University. A quanto risulta non ha un’occupazione stabile, se non quella di guidare il gruppo che ha organizzato, con altri, la marcia motorizzata su Portland, sabato 29 agosto. Almeno 600 veicoli, auto, Suv e pick-up, bardati con bandiere americane e striscioni pro Trump. È finita male: uno dei partecipanti, Aaron Jay Danielson, è stato ucciso. «Era uno di noi, un amico», ha commentato Gibson, annunciando l’apertura di una sottoscrizione per la famiglia.
Gibson ha fondato il movimento nel 2016 con l’obiettivo dichiarato di «sostenere Donald Trump» e «liberare i conservatori della Costa Ovest». Oggi la pagina Facebook dei Prayer è seguita da 43 mila persone e 33 mila approvano il materiale che viene postato. Nel manifesto di apertura si legge: «Noi combattiamo la corruzione a tutti i livelli, il governo invasivo, la tirannia. Dio ci dà la forza e il potere dell’amore». Sul sito, però, confluisce un po’ di tutto: «patrioti» che rifiutano il lockdown, la mascherina e le misure anti pandemia; anti-abortisti e, soprattutto, fan di Donald Trump. Lo stesso Gibson è difficile da classificare. Si dichiara «pro life», ma è favorevole al matrimonio tra omosessuali e alla legalizzazione della marijuana.
Una cosa è certa: i Prayer amano più i fucili a vernice che i rosari; più i caschi, i giubbotti anti-proiettile, l’abbigliamento militare che i sermoni e le messe. Uno dei tanti motti è «God and Freedom» e molti simpatizzanti si considerano «crociati». Sono anche razzisti? Gibson lo ha sempre negato seccamente. In un comizio del 2017 mandò a quel paese i suprematisti bianchi e i neonazisti, chiarendo: «Non abbiamo nulla a che fare con questo tipo di cose. È sbagliato». Sempre quell’anno, prima di un’altra manifestazione a San Francisco, spiegò a Fox: «Io sono giapponese, avremo tre speaker afroamericani, un paio di latini, un ateo, un transessuale. Come vede siamo estremamente eterogenei. È irresponsabile definirmi un suprematista bianco».
Tuttavia dalla pagina Facebook di Patriot Prayer parte un sentiero virtuale che, rimbalzando da un sito all’altro, si inoltra in un sottobosco di gruppi e gruppuscoli dai nomi espliciti. Ci sono i Proud Boys, fondati dal canadese Gavin McInnes e poi i White Lives Matter; The Extinction of the White Race; Texas Proud; Oregon Outlaw Militia e tanti altri ancora. Spesso le formazioni hanno, chiamiamola così, una specializzazione: nazionalismo, xenofobia, anti femminismo.
Gli studiosi del fenomeno stanno cercando di orientarsi, proponendo alcune distinzioni. La più citata è quella tra l’Alt-Right, gli estremisti di destra, anti-immigrazione e con legami con i suprematisti bianchi, e la Alt-Lite, di cui farebbero parte anche Gibson e i suoi Patriot Prayer.
C’è da chiedersi, però, se con tre morti nel giro di pochi giorni tra Kenosha e Portland, questa catalogazione sia ancora utile per capire che cosa stia davvero succedendo nel Paese.
Il viaggio in rete, su Facebook soprattutto, lascia pochi dubbi. Il confronto delle idee è piuttosto labile, mentre è copioso il flusso di immagini truci: persone armate, fucili imbandierati, teschi che accompagnano gli avvertimenti «alla sinistra». «Siamo pronti»; «Stiamo arrivando»; «Black Lives Matter è il male assoluto»; «Dio giudicherà i colpevoli, noi faciliteremo il loro incontro (frase usata anche da Vladimir Putin contro i terroristi, ndr)» e così via.
Il metodo di Gibson è la provocazione sistematica. Sul suo account ha postato un video che lo riprende, mentre, nella notte, passeggia tra gli attivisti di Portland. È anche sotto processo per una rissa nel maggio del 2019: una donna è finita in ospedale, con le vertebre rotte.
A questo punto il vero discrimine è l’uso della violenza. A Kenosha abbiamo visto il diciassettenne Kyle Rittenhouse, «patriota» della «Kenosha Guard», presentarsi in strada con un fucile d’assalto e uccidere due manifestanti. Il discorso, naturalmente, vale anche per il movimento pacifico anti-razzista che, fin qui, non è stato in grado di espellere le frange più violente, come dimostra proprio l’omicidio di uno dei Patriot Prayer a Portland.