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 2020  settembre 01 Martedì calendario

Intervista a Francesco Totti

Nella parte finale del docufilm in uscita a ottobre, Mi chiamo Francesco Totti, c’è una scena di fortissimo impatto emotivo. È il 28 maggio del 2017, qualche minuto dopo la conclusione della sua ultima partita. Nel ventre dell’Olimpico, Totti sta aspettando di essere richiamato in campo per la lunga cerimonia dell’addio. Molte persone gli si agitano attorno, preparando luci, microfoni e tappeti da stendere. Francesco è seduto su un gradone grigio con lo sguardo perso nel vuoto, l’aria affranta. Malgrado l’animazione che lo circonda, è un attimo di perfetta solitudine: quello in cui si sta chiedendo cosa verrà dopo, ma con l’angoscia di chi già rimpiange ciò che è stato. Il regista, Alex Infascelli, piazza a questo punto un vecchio Baglioni, di quelli che ti ripassano la giovinezza in un amen, e l’astuzia va subito a bersaglio.

«Ilary è crollata lì. Ha pianto come una fontana».
E lei, Totti?
«Mi sono commosso anch’io. Ma sa quando è arrivata un’altra botta? Due settimane fa, quando abbiamo preso nella nostra agenzia Mattia Almaviva, proprio il ragazzo a cui consegnai la fascia da capitano. Non ci eravamo più rivisti da allora e mi sono emozionato ad ascoltare il suo racconto. Quel giorno venne allo stadio senza sapere niente, non doveva toccare a lui ma al capitano dei più piccoli. Siccome però gli esordienti avevano una gara distante e non facevano in tempo a rientrare all’Olimpico lo informarono che sarebbe toccato a lui. Non so a chi dei due tremassero più le gambe, quel pomeriggio».
Come procede la sua nuova attività? Ormai gli assistiti sono parecchi, quasi tutti giovanissimi.
«È molto divertente il momento in cui entrano nella sala riunioni e trovano me. Voglio dire che firmando con la nostra agenzia, e sottolineo il nostra perché in Italia io posso fare solo scouting e quindi i rapporti con i club li cura il mio socio, i ragazzi si aspettano di parlare con un procuratore. Invece ci sono io, e sul momento restano a bocca aperta. Devo dire che il mio appeal è ancora discreto, sui giovani e sui genitori».
E sulla Roma, par di capire. La maggior parte dei suoi ragazzi viene dal suo vecchio club, il che è strano considerato il modo polemico nel quale vi siete separati l’anno scorso.
«È vero. Malgrado tutto, però, il rapporto con il ceo Guido Fienga è rimasto ottimo. E sul fatto che la Roma gradisca avermi come interlocutore quando si tratta di assistere un giovane, di fare il suo bene nel senso più ampio, beh... l’ho notato anch’io. Con piacere, naturalmente».
Totti, quando rientra nella Roma?
«Non è la domanda giusta. Troppo diretta, questa è una storia di sfumature. Se lei mi chiede quando incontrerò la famiglia Friedkin le rispondo: quando mi inviteranno a prendere un caffè, e sinceramente penso che succederà. Ma al momento non c’è stato alcun contatto».
Che idea si è fatto della nuova proprietà?
«Dan Friedkin ha capito in fretta la cosa fondamentale: a Roma la proprietà dev’essere fisicamente presente, e l’annuncio che il figlio Ryan verrà a vivere qui va nella giusta direzione. Pallotta ha commesso degli errori perché decideva in base a notizie riportate. Il proprietario deve viverle in diretta».
Sempre convinto che la direzione tecnica spetti a un ex giocatore?
«Le faccio un esempio e non è il solito Bayern, che pure ha appena vinto la Champions con Rummenigge, Hoeness e Kahn in prima fila. Mi dica quanto è forte Theo Hernandez. Tanto, vero? Beh, l’ha scelto Paolo Maldini, che di terzini sinistri, e non solo, evidentemente se ne intende».
Il buon rapporto con Fienga, plenipotenziario degli americani, lascia intendere che la ricomposizione sia possibile.
«La situazione è in questi termini: dopo lo strappo dell’anno scorso mi sono reinventato una vita professionale interessante e piacevole. Lavoro con vecchi amici: Candela segue la Francia, Aldair il Sudamerica. Assieme cerchiamo ragazzi con qualità di base notevoli, e spieghiamo loro la mentalità che porta al vertice. I contratti vengono dopo, sono una conseguenza, io ti dico come devi vivere per meritarteli, ed è abbastanza normale che se glielo assicura Totti un ragazzo ci crede. Questo vuol dire che non brucio dall’esigenza di cambiare, ho trovato un’altra cosa che mi appassiona. Messa in chiaro la premessa, è naturale pensare che prima o poi io e la Roma ci ritroveremo. Ma i tempi non li detto io, e soprattutto non aspetto che succeda seduto a far niente sul divano di casa».
Fuori Trigoria sì, però. L’hanno segnalata più volte.
«È complicato da spiegare. O forse no. Al mattino porto Cristian all’allenamento ma non entro, non mi va. Se la sessione è lunga torno a casa, se invece è breve lo aspetto sul retro, nel parcheggio all’ombra, sbrigo un po’ di telefonate, sono sempre in arretrato. Ma dopo qualche minuto arrivano Vito Scala, i magazzinieri, tutto il personale di Trigoria che ha vissuto con me per 25 anni, gente che mi vuol bene. Hanno visto Cristian, sanno che sono lì fuori. Prendiamo un caffè, si chiacchiera, si sorride».
Non è un po’ malinconico restare fuori Trigoria quando ovviamente sarebbe accolto con tutti gli onori?
«Sono stato qualcuno lì dentro. Ci tornerò a tempo debito».
Questa è l’estate in cui la Juventus ha scelto per la panchina Pirlo, Gattuso ha rilanciato il Napoli, Pippo Inzaghi ha riconquistato la A col Benevento e Nesta l’ha sfiorata col Frosinone. In cui il suo amico De Rossi è stato accostato alla Fiorentina. I club, anche importanti, sembrano fidarsi dei campioni del mondo.
«È una tendenza nata dal successo di Zidane. Quando parla un allenatore che è stato un campione, lo spogliatoio ascolta perché lo rispetta. Naturalmente deve esserci una capacità tecnica, se il campione è un bluff viene scoperto e finisce tutto. Però il rispetto per il tuo passato ti garantisce un po’ di tempo in più, e Gattuso per esempio l’ha sfruttato benissimo. Pirlo? È una persona d’oro, spero sinceramente che ce la faccia e devo dire che la Juve difficilmente sbaglia una scelta. Ma non mi aspettavo un passo così deciso, non è normale che un debuttante riceva un incarico gravato da simili aspettative. Andrea dovrà essere Pirlo, vale a dire un fuoriclasse, anche in panchina. E da subito».
De Rossi sarebbe ugualmente pronto?
«Sento spesso Daniele, è carico come una sveglia per allenare, per me sarebbe prontissimo e trovavo adeguata l’idea Fiorentina. La Roma per ora lasciamola stare, Fonseca ha fatto una buona prima stagione, ha perso qualche punto dopo la ripresa ma Atalanta e Lazio erano comunque irraggiungibili».
Come ha giudicato la complessa conferma di Conte all’Inter? Cercare di ingaggiarlo era stata la sua ultima missione da dirigente della Roma.
«E pensavo di avercela fatta, chieda a Fienga, anche lui ormai si stava convincendo. Parlai con Antonio per dieci giorni in modo sempre più dettagliato, voleva sapere tutto, giocatori da cedere e giocatori da prendere, clima interno allo spogliatoio, ricordo che pretendeva soltanto tre figure a contatto con la squadra, gli altri tutti lontani, e l’avremmo accontentato. Ci rimasi male, quando alla fine scelse l’Inter».
Sostenere che Zaniolo sia il suo erede non significa fargli un piacere, ma è ovvio che un talento del genere induca a certi pensieri. Lei gli ha pure affittato casa...
«Sì, ma della sua vita so poco. Non è che vada ogni mese a riscuotere la pigione».
Okay, ma un’idea se la sarà fatta.
«Zaniolo può diventare un grandissimo. È il talento più cristallino della nuova generazione, deve maturare come persona e in campo ma è inutile farla troppo lunga, succede a tutti i ventenni. Il consiglio migliore che gli posso dare è quello di legarsi a Lorenzo Pellegrini, perché è la persona che è, e perché da romano sa gestire bene privilegi e rischi del giovane campione in una città così differente dalle altre».
Differente perché? A volte da fuori si stenta a capirlo.
«Per l’amore. Come si sa, io non mi sono ritirato volentieri. Mi consolavo pensando che una volta chiusa la carriera mi sarei almeno riappropriato di una vita. Invece il legame con la gente è diventato ancora più stretto, e aumenta, aumenta ogni giorno. E siccome dopo il ritiro qualche momento amaro l’ho passato, e non ero abituato, mi tengo stretto l’affetto popolare, altro che respirare un po’».
Come se lo spiega?
«Sempre allo stesso modo, perché sono rimasto. I tifosi le vedono le finali di Champions, l’anno scorso Salah e Alisson, quest’anno Marquinhos e Paredes: i giocatori forti da qui sono passati, ma se ne sono pure andati. Non tutti, però. Io e Daniele siamo rimasti».
Eppure sui social siete stati anche criticati.
«Lei crede ai social? Io no. Neanche li leggevo, finché non mi hanno segnalato certi commenti bavosi alla famosa copertina di Gente... ecco, questa è una storia che ha mandato Ilary e me fuori di testa. Ci saranno conseguenze legali».
(Paolo Condò comincia oggi la sua collaborazione con Repubblica)